Festeggio i miei 53 anni giusto l’8 marzo, in occasione della giornata in cui si festeggiano le donne.
Reduce da problemi di salute piuttosto seri e dalla difficoltà di gestirli per la loro incompatibilità con il mio ruolo di caregiver, rivolgo il pensiero alle tantissime donne che accudiscono i propri figli o congiunti per tantissimi anni, a volte per tutta la vita. Mi torna alla memoria una ragazza disabile, il cui padre mi contattò anni fa per un aiuto nella riorganizzazione della gestione della vita di questa giovane affetta dalla nascita da paralisi cerebrale infantile. Come mia figlia Diletta. I figli degli errori e degli inconvenienti indimostrabili, perché è rarissimo che si leggano sentenze che riconoscano queste crude realtà.
Al dramma della disabilità gravissima si sommano fattori psicologici e sociali pesantissimi.
La mamma di questa giovane morì una mattina mentre accudiva la propria figlia. Si accasciò su di lei senza vita e rimasero così per ore, fin quando i fratelli non rientrarono a casa e non trovarono la sorella immobile e gelida per non aver bevuto, mangiato e prese le terapie. Su di lei la mamma senza vita. Non ne ha parlato nessuno di questa morte sconvolgente. Una donna, una madre, che ha speso la sua vita così e che ha lasciato questo mondo con lo schiaffo violento di quella indifferenza sociale che ci travolge. Dopo un anno, quella giovane finì in un istituto. E dopo tre anni morì. Perché questi figli vivono nella luce di chi si dona loro.
Ci sono anche padri, mariti, fratelli e sono parimenti essenziali. Ma i numeri parlano chiaro. Sono le donne che rimangono incagliate nella misura accudente senza avere nessun potere reale di scelta. Siamo le madri, le mogli, le figlie: chi altri se non noi? Private dei diritti fondamentali senza scusa e senza un grazie. Si perde il diritto di esprimere la propria volontà, quello di lavorare, quello di uscire, quello di farsi la doccia quando si ha voglia, quello di mettersi in gioco o addirittura di curarsi. Si stringono legami affettivi con dipendenze tossiche da farmaci, cibo e molto altro, perché nel girone della resilienza quel male inguaribile che si spaccia come condizione a volte costringe la donna, la mamma, la moglie, la caregiver a ingoiare le lacrime e ad accettare l’impotenza di poter solo accudire ma non curare.
Lo vivo sulla pelle da 26 anni. Nulla logora più di dover assistere una condizione di dolore che non si può alleviare. Nulla può ferire di più di massaggiare piedi ormai storti dal non camminare mai. I soldi scarseggiano, la solitudine dilaga e quel pozzo nero inghiotte tutto. La donna resiste con la ribellione di quei meravigliosi piumini gialli della pianta che ci hanno assegnata. Non fiori ma un colore di vita vera che muove al vento, cade, vola e si trasforma in una danza ribelle, un po’ come la nostra. Sgranchiamo le nostre schiene rovinate, gestiamo i troppi chili o le troppe ossa, evadiamo sui social ma principalmente sempre con l’occhio attento alla nuova cura da provare, alla nuova strada da perseguire e intanto la nostra vita scorre. Ci impongono di giurare il bene e il giusto quando i nostri figli compiono i 18 anni e diventiamo i loro amministratori. L’insulto più grave per una madre che fino al giorno prima tutti hanno ignorato e che dal giorno dopo viene indagata e controllata come un nemico che deve rendicontare le spese del figlio a cui dà la propria vita in ogni istante con un amore che chi non ci passa non potrà mai percepire fino in fondo.
L’8 marzo si festeggia la donna e ricordando l’attribuzione storica di questa celebrazione a una tragedia accaduta nel 1908, che avrebbe avuto come protagoniste le operaie dell’industria tessile Cotton di New York, rimaste uccise in un incendio, è giusto ricordare le battaglie quotidiane che moltissime donne portano avanti. La cura di un nostro congiunto, impegno gravoso che si porta avanti anche per decenni, priva la donna di ogni diritto sociale. Non avrà una pensione, non potrà avere ferie, permessi, malattie, non avrà un supporto psicologico e una rete di servizi adeguata. Viaggerà sola nella tempesta proteggendo chi dipenderà per sempre dalla sua forza. E lo Stato? Responsabile di non riconoscere a questo ruolo nessuna verità, ignaro del mare di ingiustizie che infligge con le sue normative, ritardi e regole che raramente tengono conto di questa verità, cosa fa?
Auguro a noi donne di poter festeggiare ognuna dal fortino che ha dovuto costruire, ognuna sorridendo all’altra, ognuna consapevole che il male è immenso ma la nostra forza è più grande. E se in questo Stato le donne che rappresentano la forza istituzionale davvero volessero distinguersi, dovrebbero riconoscere le donne caregiver come risorsa pubblica a carico delle pari opportunità sociali.
Auspico che finalmente chi dedica la vita alla cura esonerando e agevolando uno Stato assente e carente e spesso non adeguato sia riconosciuta da una norma che tuteli i diritti e che riconosca delle garanzie sociali a donne che alla morte dei propri cari si troveranno sotto la soglia di povertà. Senza neanche una sorta di reversibilità o di pensione anche dopo aver svolto lavoro di cura per 30, 40 o 50 anni e oltre. Auguri a noi donne.
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