di Marco Leonardi e Luciano Monti
Il progetto di riarmo della UE prevede con certezza un fondo comune da 150 miliardi e poi rimanda la scelta ai singoli paesi se e quanto fare più debito nazionale o in alternativa utilizzare parte dei fondi di coesione. L’Italia ha già detto di no, ma i fondi di coesione attuali giacciono inutilizzati e già si attende con preoccupazione la riforma della programmazione per il nuovo settennato 2028-2034.
Non tutti sanno che oggi le nostre amministrazioni pubbliche non devono spendere solo i fondi del PNRR ma anche quelli dei Fondi di Coesione europei, il Fondo di sviluppo regionale (Fesr) e il Fondo sociale plus (Fse+), Fondo di sviluppo rurale (Feasr). Nell’attuale bilancio UE 2021-2027 sono stati previsti oltre 392 Miliardi di euro di “fondi di coesione” ci cui 38 destinati all’Italia, che sommati al cofinanziamento nazionale, raggiungono il totale di 74 miliardi euro, un terzo del PNRR. Le regioni e i ministeri attraverso i cosiddetti “programmi operativi” ci finanziano di tutto: dalle politiche scolastiche allo sviluppo locale, sia servizi, sia incentivi alle imprese, sia infrastrutture. Le regole di assegnazione sono a favore del sud, trattandosi di coesione territoriale. Il funzionamento dei fondi di coesione è molto diverso dal PNRR, i programmi operativi sono ancora misurati sulla spesa e i conti si fanno solo alla fine in prossimità della scadenza prevista per il 31 dicembre 2027.
In questo momento queste risorse sono “polverizzate” in oltre 70 programmi operativi a maggioranza regionali e rimangono in secondo piano, oscurati dal PNRR. Al 31 dicembre 2024, risultavano attivati progetti per 12,6 miliardi di euro, il 17% degli oltre 74 miliardi complessivi. La spesa effettiva è ferma a 3,4 miliardi, il 4,6%. E solo per merito delle regioni perché in questo caso i programmi gestiti dai ministeri sono ancora più fermi. Sarà difficile impegnarli tutti per il 2027.
Nonostante tutto questo, due sono gli elementi che dovrebbero indurre il nostro paese ad occuparsi fin da subito della nuova programmazione 2028-2034. Il primo elemento è che il Dispositivo di ripresa e resilienza, che ha finanziato il PNRR, non sarà reiterato. Questo significa che per la coesione economica e sociale dovremo contare nuovamente e esclusivamente sui Fondi Europei. Il negoziato sulla nuova programmazione prenderà il via proprio quest’anno. A settembre la Commissione europea dovrebbe formulare la sua prima proposta e a seguire i pareri del Parlamento europeo.
Il secondo motivo è che l’attuale assetto di governance della politica di coesione italiana è fortemente decentrato: le singole regioni programmano direttamente con Bruxelles i loro programmi operativi. Le prime indicazioni che arrivano dalla nuova Commissione indicano la chiara volontà di cambiare sistema e di non riprodurre i 398 programmi operativi presentati dalle regioni e dai ministeri dei 27 paesi membri. L’indirizzo è quello di riprodurre l’esperienza dei PNRR nazionali che, come noto, non si incentra sulla spesa ma è fortemente performance-based, cioè, incardinata in obiettivi da raggiungere, ovvero target e milestones.
Inoltre, poiché oggi il tema della difesa ha reso chiaro che all’Unione europea servono maggiori risorse, le nuove addizionali risorse potrebbero (si spera) arrivare da nuovi eurobond a sostegno dei principali capitoli di bilancio. Questo per le politiche di coesione significa almeno due cose: a) se si dovesse applicare il sistema performance based agli attuali programmi operativi che in tutta Europa sono quasi 400, Bruxelles si troverebbe a monitorare circa 40000 obiettivi (immaginando che ciascun programma operativo ne abbia solo un centinaio cadauno); b) le risorse della nuova politica di coesione non sarebbero erogate solo sotto forma di contributi, ma anche di prestiti.
È per questo che -se si applica l’approccio PNRR alla nuova programmazione settennale -non è ragionevole mantenere la governance regionale dei fondi di coesione. Una possibilità è che Bruxelles si interfacci solo con gli stati nazionali ma questo vorrebbe dire sostanzialmente esautorare le regioni come è avvenuto in parte con il PNRR. Ma i “fondi di coesione” si chiamano così perché si occupano di colmare divari regionali che da noi sono ancora molto marcati. Una altra possibilità potrebbe essere quella, sempre seguendo le logiche di Bruxelles, di costruire il piano nazionale attorno alle cinque macroregioni italiane, cioè Nord est, Nord Ovest, Centro, Sud e Isole. All’interno di ciascuna macroarea poi, regioni e comuni potrebbero svolgere il ruolo di attuatori delle strategie ivi declinate. In qualche modo bisognerà far entrare gli enti locali nella discussione della nuova programmazione, perché, con sempre meno risorse proprie, le risorse europee potrebbero rappresentare il principale sostegno dei bilanci regionali e locali. Magari i fondi saranno meno, ma comunque dovranno essere molto meglio allocati e spesi.

Professore di economia politica all’università degli Studi di Milano, si occupa di disoccupazione e diseguaglianze. E’ stato tra gli anni 2015 e 2018 membro del comitato tecnico di valutazione della Presidenza del Consiglio e consigliere economico del Presidente Gentiloni. Ha scritto un libro sulle riforme di quegli anni dal titolo “le riforme dimezzate, perché su lavoro e pensioni non si può tornare indietro”, EGEA 2018. Fa parte della Presidenza Nazionale di Libertà Eguale.
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