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“Calarsi nel mare dei social media significa sottoporsi al loro giudizio impietoso ed essere disposti a interagire, non solo a dispensare saggezza e buona scrittura a senso unico”

Marco Bardazzi, Scrivere e comunicare nell’era digitale, su La Stampa, 2014

 

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Stiamo uscendo dall’era del broadcast, un’epoca fortemente connotata dalla TV nella quale giornalisti, scrittori, politici e altri personaggi con una qualche fama potevano permettersi di mandare messaggi unidirezionali, senza avere la necessità di rispondere. Stiamo entrando nel mondo dello sharing, dove contano parole-chiave come comunità, condivisione, conversazione e contaminazione.

 

In questo nuovo ecosistema, il vero rischio è il caos. Il fiorire di narrative di ogni genere rende difficile tenere un filo del discorso. La frammentazione sfida la nostra capacità di concentrazione, ci rende lettori distratti, più propensi a prendere spunti e slogan qua e là che non ad analizzare a fondo i temi.

 

La pluralità delle voci e delle storie del mondo oggi emerge in tutta la sua varietà su Facebook, Twitter, Instagram, YouTube e sulle altre piattaforme social. Capire come cambia il nostro modo di narrare la realtà, richiede di fare i conti con questi strumenti di condivisione e di creazione di comunità.

 

La realtà è che tutti hanno bisogno del proprio palcoscenico. Abbiamo l’auditel della nostra vita: «Quanti like ci sono? 3000? Allora ho un buono share. La mia vita piace!». Sì, la tua vita forse piace. Agli altri. Ma a te, piace? La stai vivendo o la stai interpretando? Essere ha perso, apparire ha vinto.

 

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“Sanno che stiamo morendo. Non gliene frega niente. Fanno soldi sapendo che moriamo”. Queste sono le parole di Taylor Little, dipendente dai social media a soli 12 anni, che ha portato alla depressione, e persino un tentato suicidio.

 

Documenti trapelati rivelano che Mark Zuckerberg sa da anni che i prodotti delle sue aziende sono progettati per creare dipendenza, e che gli adolescenti sono i più colpiti. Le piattaforme hackerano letteralmente i nostri cervelli per tenerci agganciati, e i cervelli in via di sviluppo dei ragazzi sono molto più soggetti alla manipolazione.

 

La presidente dell’UE von der Leyen ha promesso di eliminare le funzioni che creano dipendenza, ma le Big Tech stanno già facendo ostruzionismo.

 

Taylor ha detto che stare senza telefono “provocava astinenza. Era insopportabile”. Gli esperti di salute mentale la chiamano: “nomofobia”, fobia da assenza da cellulare. È un fenomeno globale: quasi la metà degli adolescenti dichiara di essere online “quasi sempre” e un recente sondaggio ha mostrato che metà della Generazione Z vorrebbe che TikTok non fosse mai stato inventato. La dipendenza dai social media colpisce tutti noi, ma soprattutto i ragazzi.

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Le piattaforme hanno apportato piccole modifiche in risposta alla pressione pubblica, ma non è sufficiente. Servono cambiamenti sostanziali per trasformare queste piattaforme. Qualcosa si sta muovendo: in California è appena passata una legge che vieta la progettazione a tavolino per creare dipendenza. Nell’UE, il Parlamento sta spingendo per vietarei queste funzionalità.

 

«Ci sono solo due industrie che chiamano i loro clienti user: quella delle droghe illegali e quella dei software». La citazione è attribuita a uno statistico americano, Edward Tufte e riporta immediatamente l’attenzione sulla dipendenza da social media, che rappresenta la notizia del giorno: negli Stati Uniti, la città di New York ha confermato di aver avviato una causa contro alcune delle più grandi società di social media, tra cui TikTok, Snapchat, Facebook, Instagram che fanno capo a Meta e YouTube che fa parte di Google LLC.

 

Nello specifico, le big tech vengono accusate di aver provocato danni alla salute mentale dei bambini e degli adolescenti e di aver «alimentato una crisi mentale tra i giovani su scala nazionale a livelli che non si erano mai visti». Il sindaco di New York, Eric Adams, aveva anticipato la causa a fine gennaio. «Negli ultimi dieci anni abbiamo visto quanto il mondo online possa esporre i nostri figli a un flusso continuo di contenuti dannosi e alimentare la crisi nazionale della salute mentale dei giovani», ha affermato Adams. Oltre alla città di New York, tra i querelanti ci sono anche il distretto scolastico e le istituzioni sanitarie, secondo le quali le società proprietarie hanno «consapevolmente progettato, sviluppato, prodotto, gestito, promosso, distribuito e commercializzato le loro piattaforme per attrarre e creare dipendenza, con una supervisione minima da parte dei genitori».

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Il dibattito sui danni che provocano i social media negli Stati Uniti va avanti da mesi e aveva toccato il suo apice con la seduta al Congresso dello scorso 31 gennaio, che si era trasformata in una sorta di processo ai capi dei più grandi social network di tutto il mondo accusati di «rovinare vite umane». Ha senso chiedere politiche più cautelative verso i ragazzi e i bambini che utilizzano i social media? Assolutamente sì, ma è realistico riuscire a farlo? La risposta a questa seconda domanda deve tenere in considerazione questo numero stimato dai ricercatori della Harvard T.H. Chan School of Public Health: nel corso del 2022 solo negli Stati Uniti Facebook, Instagram, Snapchat, TikTok, X, ovvero l’ex Twitter e YouTube avevano ricavato complessivamente quasi 11 miliardi di dollari dalle entrate pubblicitarie somministrate ai quasi 50 milioni di giovani utenti, di età inferiore ai 18 anni, che rientrano fra le categorie più vulnerabili.

 

Dagli Usa all’Italia il dibattito sui social media e i minori sembra perdere, almeno in parte, quei toni da “caccia alle streghe”, Barbara Strappato, direttore della Prima divisione del servizio Polizia postale e delle comunicazioni chiede di utilizzare una scala amplissima di grigi per ragionare sui rischi che corrono i ragazzi sui social media, senza demonizzarli ma chiedendo piuttosto una partecipazione attiva e responsabile dei genitori e degli adulti di riferimento nel processo di educazione digitale dei figli e dei nipoti. 

 

Sebbene un recente studio dell’Università Cattolica su “Alfabetizzazione mediatica e digitale a tutela dei minori” abbia confermato le evidenze di altre ricerche sulle esperienze negative nella Rete, non va sottovalutato che da quei dati sia emersa anche una maggior consapevolezza nell’utilizzo delle piattaforme digitali. «Il 94% dei minori tra gli 8 e 16 anni utilizza uno smartphone, tra gli intervistati il 68% ne possiede uno personale, il 28% l’ha ricevuto prima dei 10 anni e il 25% dopo gli 11 si legge nell’indagine -. Sette ragazzi su dieci tra gli 8 e i 10 anni usano regolarmente i social e le piattaforme streaming»: quest’uso precoce e poco guidato dai genitori certamente preoccupa, concorda Strappato, soprattutto perché si è abituati a pensare quasi esclusivamente che lo smartphone o gli ambienti digitali siano in qualche modo oggetto di una esperienza solipsistica. Al contrario, da questa indagine della Cattolica emerge che sui social ragazze e ragazzi cerchino una dimensione relazionale, anche se mediata.

 

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«L’indagine ci mostra come i limiti di età imposti dalle piattaforme che sono di 13 e di 14 anni sia disatteso» continua la dirigente della Polizia postale che però parla anche delle buone interlocuzioni con le piattaforme che «sono collaborative e attente nell’eliminare contenuti di pedopornografia o di terrorismo». Sono presenti funzioni che limitano l’accesso per età, i controlli parentali, su TikTok anche un limite automatico di 60 minuti per gli utenti sotto i 18 anni e altro ancora. «Collaboriamo regolarmente con esperti per comprendere le migliori pratiche emergenti e continueremo a lavorare per mantenere la nostra community al sicuro affrontando le sfide a livello industriale» fa sapere un portavoce di TikTok.

Da tempo assieme a Google, a Meta, ma anche alla Rai e a Mediaset il Mimit, l’attuale ministero delle Imprese e del Made in Italy, lavora sul tema dell’alfabetizzazione digitale: a disposizione per il biennio 2022-2024 è stato messo 1 milione di euro all’anno. Investimenti fondamentali considerando che «gli adolescenti vivono immersi in un mondo in cui lo smartphone è il principale accesso a servizi, giochi, contatti con gli amici». Semplificando molto, rinunciare all’utilizzo delle tecnologie e dei social media non avrebbe senso: secondo Gallino anche le politiche restrittive di Meta che esplicitamente sta riducendo i post con contenuti politici, in un anno in cui ci saranno le elezioni europee e il voto presidenziale negli Usa, rischiano, comunque, di penalizzare l’attività e la partecipazione politica di milioni di persone nel mondo. In altre parole, le piattaforme social, con tutti i rischi connessi al loro utilizzo, ma anche le potenzialità che portano su di sé, vanno sfruttate con senso critico, tutelando la nostra privacy il più possibile e cogliendo le opportunità di conoscenza e incontro che pure esistono.

 

Il diavolo è sempre persuasivo e seducente…ma fa le pentole non i coperchi e per fortuna non riesce ad ammaliare tutti. 

Ora,vi prego, dopo questo,  non confondetemi con Roberto Vannacci con cui non ho nulla da spartire.

 





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