Marino (ex Ema): “Troppe leggi in Europa? No, dobbiamo conservare la leadership del diritto”

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Il progresso scientifico corre e le leggi inseguono. Normare o semplificare? La dirompente innovazione biomedica sfida da sempre il sistema giuridico a costruire percorsi che tutelino allo stesso tempo il diritto dei cittadini a cure sicure ed efficaci e la competitività delle imprese. Di questo e molto altro s’è occupato fino a qualche mese fa Stefano Marino, per oltre dieci anni a capo degli Affari legali dell’Agenzia europea dei medicinali (Ema).

Nato a Cosenza nel 1962 e con pregresse esperienze aziendali in Sigma Tau e Menarini, dallo scorso primo di ottobre ha assunto l’incarico di Senior consultant del gruppo Life sciences europeo interno allo studio legale internazionale Dla Piper. In questa intervista esclusiva ad AboutPharma, precisa che tale consulenza è soggetta ad alcune restrizioni operative legate al ruolo senior ricoperto in Ema e che le opinioni espresse nel testo che segue sono personali, non rappresentano il punto di vista dell’agenzia, né possono essere intese o citate per conto di questa. Nemmeno di riflesso.

Dottor Marino, dal suo osservatorio istituzionale negli ultimi dieci anni come si è evoluto il contenzioso legale in Europa e rispetto a quali temi?

A me sembra che i grandi temi emersi alla Corte di Giustizia europea nel nostro settore siano essenzialmente due: l’accesso ai dati e ai documenti, che resta una delle attività più delicate e controverse nel panorama europeo. Con riferimento più al farmaceutico, mi sembra che i due principali filoni di attenzione siano stati quello del conflitto di interessi e alcune decisive interpretazioni della Corte di Giustizia rispetto a normative basilari, come lo stesso regolamento istitutivo dell’Ema o come la Direttiva che regola le attività farmaceutiche in Europa e per esempio, con riferimento a quest’ultima, l’interpretazione del concetto di “global marketing authorisation”. Malgrado ancora qualche incertezza a livello implementativo nazionale, la Corte è stata lapidaria nel definire e chiarire che cosa è una Global marketing authorisation, quali sono le possibilità di avere nuovi periodi di regulatory data protection e temi correlati, su cui non entro in dettaglio. A livello nazionale, credo che le questioni siano alla fine sempre un po’ le stesse: accesso ai mercati, conflitto tra generici e innova-tori, prezzi e rimborsi etc.

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Parliamo allora della bozza di riforma della legislazione farmaceutica europea. Il testo innova la precedente normativa che risale a vent’anni fa. Un suo parere rispetto ai principi e a come vengono declinati.

A parer mio la riforma proposta dalla Commissione un anno fa è molto coraggiosa e anche molto ben pensata e costruita anche in dettaglio, con un impact assessment di centinaia e centinaia di pagine che ho trovato fatto molto bene. Tra le tante cose che la riforma propone quella che più emerge è una certa maggiore attenzione ai pazienti e anche alla necessità del dialogo tra le istituzioni e tutti gli stakeholder, quindi le industrie, i pazienti, i rappresentanti dei medici, etc.

Contiene molte scelte politiche – devo dire anche ideologiche in alcuni casi – e probabilmente solo una parte delle proposte della Commissione verrà accolta poi dal co-legislatore. Mi pare però che il Parlamento abbia tenuto abbastanza i punti chiave della riforma, ipotizzando alcune modifiche quasi tutte favorevoli alle industrie. Quindi questo mi lascia un po’ sperare sul fatto che i tempi inizialmente ipotizzati per la sua approvazione – si parlava del tardo 2026 – potrebbero essere più brevi.

Di quanto?

Può darsi che gli Stati membri trovino una quadra in sede di dibattito consiliare e che quindi questa riforma veda la luce qualche mese prima. Abbiamo già risparmiato sei mesi perché secondo le stime il Parlamento non avrebbe licenziato la riforma prima delle elezioni europee, ma invece lo hanno fatto ben due mesi prima.

Più nel merito, quali ostacoli vede ancora?

Penso che ci siano almeno sette, otto argomenti su cui il dibattito sarà aspro. Però gli elementi di valutazione c’erano già nell’impact assessment e quindi converrà andare a rileggerlo. Converrà anche valutare tutta una serie di cose nuove che stanno accadendo, come l’approvazione di altri testi, ad esempio sull’artificial intelligence e sullo spa-zio europeo dei dati sanitari. Ci sarà una necessità di pensare a 360 gradi sulle interdipendenze con queste altre fonti normative, però secondo me la Commissione ha fatto un buon lavoro e anche l’E-ma che ha collaborato evidentemente nel fornire pareri tecnici adesso dovrà attrezzarsi per imple-mentare la riforma. Sarà una sfida importante.

Uno dei punti più avversati da parte delle aziende ha a che fare con la data protection e la market esclusivity, cioè tutti fattori che potrebbero in qualche maniera indebolire la proprietà intellettuale, con conseguente perdita di attrattività e contrazione degli investimenti in ricerca e sviluppo in Europa, a tutto vantaggio invece dei competitor statunitensi e asiatici. La sua risposta rispetto a questa critica?

Ovviamente sono un po’ “biased” perché faccio parte di quelli che in industria nel 2004 scrissero insieme alle istituzioni la riforma legislativa proprio in materia di regulatory data protection. Devo an-che dire che viviamo un momento delicato, in cui sta succedendo di tutto: tante innovazioni tecno-logiche, una pandemia che ha costretto le aziende a correre sempre di più e a puntare su strumenti tecnologici nuovi anche per trovare nuovi farmaci, difficoltà economiche degli Stati membri, i bilanci pubblici e la necessità di rispettare Maastricht e poi da ultimo, purtroppo, i venti di guerra attuali. In questo quadro, quando si va a toccare un impian-to normativo già consolidato di vent’anni, ci sono sempre dei rischi. Quindi una riduzione drastica delle protezioni in un momento di altissima pres-sione, probabilmente non è molto consigliabile.

Quindi come dovrebbero procedere le istituzioni?

Credo che lo stesso Parlamento se ne sia accorto, perché se andiamo a guardare le modifiche effettuate rispetto al testo della Commissione, alla fine i grandi cambiamenti non ci sono. Senza entrare in dettagli ma il mio sguardo sinottico è questo. Quello che invece mi fa un po’ paura è il dibattito consiliare in cui si riflette la pressione economica e la grande attenzione allo spazio da dare a generici e biosimilari. Per quanto questi prodotti aiutino certamente ad avere più competizione nel mercato unico, non si devono sottovalutare i riflessi più in generale sul mercato stesso. Ci sono stati anche degli eccessi da parte dell’industria che fa ricerca, abbiamo assistito in particolare nel settore degli orfani a qualche fuga in avanti e a qualche eccessivo premio per i produttori. Però da qui a dire che non dobbiamo premiare chi fa ricerca sugli orfani o chi cerca di introdurre nuove entità chimiche in Europa il passo mi sembra troppo grande.

Il perimetro normativo tradizionalmente disegnato in Europa, non solo nel farmaceutico, sembra andare in senso opposto alla semplificazione che invece è considerata la parola magica per stimolare la competizione e quindi la crescita. Cosa risponde?

Credo che l’Europa debba orgogliosamente tenere la leadership nelle riforme legislative (così è stato per anni, lo è sicuramente ancora oggi in alcune materie, penso appunto all’Artificial intelligence Act che è il primo nel mondo). Se vogliamo mantenere la posizione, dobbiamo andare cauti necessariamente. Non solo gestire, con la paura di nuovi buchi nei bilanci pubblici, ma fare un grande sforzo per favorire l’innovazione tecnologica. E se questo comporta distribuire le risorse in maniera più adeguata e senza tagli trasversali sulla protezione, allora il sistema è più auspicabile. Io diffido sempre di quelli che urlano “in questo modo chiudiamo le aziende in Europa”. No, le aziende non chiudono però devono operare meglio, devono essere più competitive, più a favore dell’innovazione e il pubblico deve garantire e favorire questo tipo di attività. Ecco, gli interessi vanno mediati. Vediamo il dibattito in Consiglio come si svilupperà. Sono un po’ preoccupato. La posizione degli stati “frugali”, che originariamente erano tre o quattro, adesso nel farmaceutico sono diventati almeno quattordici.

Cosa s‘intende per stati frugali? Quelli che vogliono risparmiare? Su cosa?

Quelli che vogliono risparmiare e quelli che pensano che l’industria sia un soggetto da temere e non da assecondare. Penso alla posizione per esempio sul voucher dell’esclusività trasferibile presa dall’Olanda, che poi ha tirato dietro altri tredici Stati. Insomma è un po’ preoccupante, perché poi sono gli stessi Stati che vanno a obiettare, per esempio, sul-la creazione di fondi europei per l’innovazione piut-tosto che sulla gestione delle emergenze vaccinali.

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Parliamo di carenze. Nella riforma è un tema molto presente. Prima dell’estate c’è stato anche un appello dell’Autorità sulle emergenze sanitarie nell’Ue (Hera) che proponeva a vari stakeholder un’alleanza per i farmaci critici per migliorare la sicurezza dell’approvvigionamento, rafforzando la disponibilità di medicinali e la riduzione delle dipendenze nella catena di approvvigionamento. Per tutto questo serve una legge ad hoc, come ad esempio chiede l’associazione europea dei produttori di generici, oppure le leggi attuali sono sufficienti?

Quello delle carenze è un tema su cui l’Ema ha veramente dato un contributo eccezionale negli  ultimi dieci anni, non solo adesso in occasione della crisi dei vaccini ma addirittura già durante la crisi Ebola, più di dieci anni fa. L’Agenzia si è rimboccata le maniche e ha rimesso in piedi i gruppi di lavo-ro che aveva utilizzato proprio all’epoca di Ebola. Questi si sono trasformati nei due grandi gruppi dedicati agli shortages che oggi sono parte integrante dell’organizzazione interna di Ema, codificati nell’emendamento al Regolamento istitutivo dell’Ema nel dicembre 2022. A questa attività così intensa sul piano istituzionale si è poi affiancata l’altra attività a latere della riforma in discussione, che è quella dell’Hera: trovo che l’idea di un’alleanza sulle medicine critiche sia una cosa molto bella per-ché ha messo insieme circa 250 attori, tra privato, pubblico, pazienti, medici eccetera, proprio per individuare una lista di medicine che in Europa sono assolutamente necessarie (critiche appunto) non solo in un momento di emergenza ma in generale. E anche per vedere che cosa fare tutti insieme per evitare che si verifichino carenze. Sulla necessità di una Critical medicine act, io credo che non sia molto chiara la legal basis per questa collezione di dati di vendita, produzione, stoccaggio etc. Né lo è anche per scambiare tali dati tra le varie istituzioni.

Quale è il lavoro che deve essere impostato?

Faccio un parallelo: quando si parlava di scambiarsi i dati tra gli Health technology assessment bodies e l’Ema noi non avevamo una legal basis. Ci siamo dovuti inventare lettere di intenti che abbiamo firmato con i vari Stati membri proprio perché ci rendevamo conto che senza un riferimento normativo questo scambio di dati sarebbe potuto risultare pericoloso. Non c’è ad oggi una chiarissima fonte per questo scambio di dati. C’è una previsione importante nella riforma che riguarda lo scambio di dati confidenziali ma è una norma “di cerniera” cioè una norma generale. Forse sarebbe opportuno effettivamente, come qualcuno ha suggerito, averne una specifica, magari un regolamento attuativo della Commissione, non necessariamente un regolamento, che prenderebbe molto tempo. Questa norma aiuterebbe tutti gli attori sia a essere più tranquilli quando si scambiano i dati. Ma la collaborazione deve migliorare…

Qualcosa non va?

In questo esercizio che ha portato all’individuazione delle prime undici medicine critiche in Europa, dalle duecento che Ema aveva inizialmente individuato, la risposta in termini di fornitura dati da parte degli Stati membri e delle industrie secondo me è stata molto deludente: meno del 50% delle industrie ha risposto e credo poco più del 50% degli Stati membri. Questo non va bene. Bisogna intensificare lo scambio dei dati, perché solo così si possono analizzare e capire meglio cosa bisogna farne. I dati oggi sono forniti in forma non armonizzata, alcuni Stati li forniscono in un certo format, altri in altri ancora. Occorrerebbe uno strumento normativo che faccia chiarezza su questi temi e quindi costringa Stati membri e altri stakeholder a lavorare insieme.

L’obiettivo principale?

Tutto questo al fine di anticipare la vulnerabilità del sistema di fornitura all’interno dell’Ue e anche di facilitare una certa indipendenza maggiore rispetto ai fornitori in Paesi terzi. Faccio l’esempio dell’amoxicillina più acido clavulanico che tutti prendiamo se abbiamo una bronchite. Se il farmaco è prodotto per più del 70% fuori dall’Europa, nel momento in cui c’è un picco di domanda e non è possibile aumentare le produzioni, l’Europa va in shortage. Serve insomma uno strumento più chiaro per la condivisione dei dati, per individuare una metodologia comune che definisca obblighi specifici per i vari attori. Un po’ quello ad esempio che è accaduto con il primo regolamento attuativo del Technology Assessment Regulation, che ha visto la luce solo qualche settimana fa per i farmaci oncologici e per le terapie avanzate. Lì c’è è tutta una procedura, una cadenza di opera-zioni, una serie di chiarimenti che la Commissione in sede di implementing act ha dato. Ecco, credo che valga la pena fare la stessa cosa. Però il sistema è sano, eccellente, Ema ha fatto un lavoro straordinario e credo che anche Hera sia su questa strada.

Tra i motivi delle carenze – almeno i produttori lo sostengono – esistono anche questioni legate al procurement, cioè a prezzi troppo bassi per giustificare la produzione e la partecipazione a gare pubbliche. Però se lei dice che mancano i dati ed è difficile dimensionare il fenomeno, altrettanto lo sarà programmare un intervento correttivo. Giusto?

I problemi sono due. Uno riguarda la necessità di coinvolgere di più Stati membri e aziende nella condivisione dei dati, con un format decodificabile da parte di tutti e quindi facilmente analizzabile da parte di Hera (che ha il mandato per fare questo). Quindi il problema è averli questi dati: fa preoccupa-re la percentuale bassa di partecipazione al primo pilota effettuato. Per il futuro, se dovessimo tornare in emergenza sarebbe un problema. Anche quello del procurement è un elemento fondamentale. Difatti una delle misure che le istituzioni vorrebbero promuovere è proprio un joint procurement a livello europeo, con un capofila posizionato a livello di uno, due o tre Stati membri. In maniera tale da avere una vista capillare su tutto il territorio europeo e direi anche per assicurare a chi vincerà le gare ritorni economici interessanti. Ciò potrebbe invogliare i produttori a investire di più nei loro impianti produttivi per riportare in Europa la fonte dei principi attivi, pensando anche all’indotto e a creare nuova occupazione. Questa a mio parere potrebbe essere una delle misure più importanti da perseguire.

Ma i grandi procurement non piacciono molto alle imprese…

Già, perché sono costrette a fare offerte abbastanza risicate. Questa però è una scelta strategica e di sopravvivenza per tutta l’Europa. Se le industrie non collaborano su questo argomento saremo perdenti e ci esporremo a un grave rischio qualora dovesse verificarsi appunto una carenza nei prossimi mesi o anni. Avvisaglie di crisi nuove sono già nell’aria quindi è meglio agire presto.

Lei ha informazioni sul patent linkage e una sua eventuale abolizione. La riforma della legislazione se ne occupa?

Il patent linkage come tale già da tempo non è un obbligo che i regolatori devono rispettare. Ad esempio l’Ema non deve curarsi della protezione brevettuale, quando esamina un dossier farmaceutico. Si deve occupare della data protection, quello sì. Una conferma nella riforma della legislazione c’è: la cosiddetta “esenzione Bolar” viene estesa anche a tutte le procedure regolatorie di domanda e variazione di Aic, o anche di richiesta di rimborso del prezzo dei farmaci. Sia la Commissione sia il Parlamento hanno confermato l’ampliamento della Bolar exemption, a conferma del “delinkage” della protezione brevettuale e credo di poter anticipare che il Consiglio lo confermerà. Quindi penso che i regolatori non saranno vincolati dall’esistenza di brevetti o da eventuali certificati di protezione complementare. È un problema bilaterale, che va affrontato con contenziosi o con degli accordi tra i vari produttori, tra i titolari di brevetto e gli altri. Stando ovviamente sempre attenti anche all’altra prospettiva che grava sul settore, che è quella di non violare le norme antitrust.

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Lei ha citato prima il regolamento europeo sull’Hta e che sarà operativo a gennaio, intanto per due classi di farmaci. Senza entrare nello spirito del regolamento, da un punto di vista legale come si devono attrezzare le imprese? Quali questioni pone il complesso delle norme?

Con grande prudenza, intorno al 2011-2012 si è cominciato a parlare di esame clinico congiunto tra Ema, Commissione e Health Technology Assessment bodies. Adesso dopo dieci anni mi pare che si sia fatto un bel percorso. Innanzitutto abbiamo tutti imparato ad annusare gli altri che non fanno il nostro stesso mestiere, ad averne rispetto e a coglierne anche alcune valutazioni. Gli Hta bodies ri-spettano le valutazioni scientifiche del Chmp di Ema e a sua volta l’Ema e la Commissione sono attente alle indicazioni che provengono da questi organismi.

Per cui il Regolamento attuativo della prima grande categoria di farmaci (anticancro e gli Atmp) che ha visto la luce in maggio, abbraccia questa filosofia del “lavoriamo insieme e lavoriamo meglio” per un risultato comune. Le aziende – tornando alla domanda – penso che ormai abbiano superato il pregiudizio che alcune avevano inizialmente del tipo “è meglio non avere una valutazione centraliz-zata perché si gioca meglio a livello dei singoli Stati”. Credo che questo ormai sia un retaggio del passato e quindi che le imprese vedano favorevolmente una centralizzazione. Ci sono nuove sfide che riguardano intanto un appesantimento amministrativo: il nuovo regolamento e anche il seguente regolamento attuativo, impongono al richiedente di fare tutta una serie di attività, se richiesto dalle autorità che conducono il joint clinical assessment, in tempi molto rapidi. Quindi si tratterà di rispondere alle domande degli Hta bodies in maniera sempre più rapida ed efficiente. Spesso non è semplice racco-gliere gli elementi entro quindici giorni, preparare una presentazione decente e soprattutto persuasiva. L’altra cosa che mi viene da pensare, che ha anche un appiglio nel Recital 58 della direttiva, e che obbligherà le aziende a parlare e a corrispondere con gli Hta bodies in assoluta buona fede.

In che senso “buona fede”?

Vorrà dire essere chiari ed esaustivi sui dati di ricerca e commerciali a disposizione, sulle prospettive di vendita etc. Se per esempio ci fosse qualche dato economico che potesse in ipotesi disturbare le trattative future su prezzi e rimborsi, l’obbligo di buona fede dovrebbe spingere le aziende a dirlo subito. Ecco, non tenere quel dato nel cassetto può essere un’opportunità per le imprese, perché potranno pretendere la stessa buona fede da parte degli Stati membri: anche i governi devono essere in buona fede quando – sia a monte, sia a valle nel perimetro nazionale – andranno poi a negoziare e rimborsare i farmaci.

Lecito attendersi comportamenti coerenti, dunque…

Sì. Se c’è stato un Health Technology assessment di Ema congiunto a questi bodies, anche se non vincolante sulle decisioni nazionali su prezzi e rimborsi – e questo il Parlamento ci ha tenuto a sottolinearlo con un emendamento alla riforma proposto dalla Commissione – è anche vero che non si può deviare radicalmente solo perché sono cambiate le esigenze economiche di uno Stato. Ad esempio, abbiamo un ammanco di cassa temporaneo e quindi il farmaco, che pure potrebbe essere un “first in class” oppure un “breakthrough”, non viene rimborsato. Quindi si impone una buona fede da ambo le parti. Le sfide sono relative a un maggio-re impegno che i richiedenti dovranno profondere per essere più credibili verso le autorità ed attrezzarsi anche tecnologicamente per dare risposte più veloci possibili durante il dibattito. E far sentire la loro voce quando, in ipotesi, uno Stato membro poi a valle si rifiutasse irragionevolmente di riconoscere il valore di un prodotto.

Nella parte del rapporto Draghi che riguarda la farmaceutica si parla anche del regolamento sull’Hta. Si accenna anche all’uso dell’intelligenza artificiale, allo spazio europeo dei dati sanitari e ad altre questioni ancora. Ci aiuta a scegliere i punti più rilevanti?

Vado veloce sui due che ha citato e poi ne aggiungo un altro che mi sembra molto importante per il futuro dell’innovazione in Europa. Mi pare che il rapporto Draghi lodi un po’ tutta una serie di attività che sono state già compiute e tradotte in norme. Quindi ha scattato una sorta di fotografia, auspicando per il futuro che da queste attività iniziali ci sia poi un riscontro nella pratica. Parto dallo spazio europeo dei dati sanitari: è una bellissima idea ma ha ancora qualche problemino. Uno riguarda la possibilità per i pazienti di fare un opt-out e quindi di revocare il loro consenso per l’utilizzo per scopi sanitari secondari dei propri dati personali. La ricerca in qualche modo bisogna che vada avanti e una volta che viene dato un consenso, non dovrebbe a mio avviso essere consentito revocarlo e quindi bloccare tutta una serie di attività che intanto si sono sviluppate.

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L’intelligenza artificiale?

L’Ema su questo ha puntato moltissimo. Siamo stati credo i primi in Europa e tra i primi nel mondo a costituire gruppi di lavoro, a fare esperimenti, a lancia-re procurement molto importanti anche per la gestione dei dati sanitari del mondo reale, anche con l’utilizzo di intelligenza artificiale. Adesso si tratta di andare avanti e insieme alle agenzie della salute di tutta Europa, ma anche alle industrie, di trovare an-cora una volta una metodologia operativa che sia efficiente e che salvaguardi sia le industrie, le quali legittimamente vogliono avvalersi anch’esse delle nuove tecnologie, sia l’operatività di Ema.

Quali opportunità in particolare?

Ne cito solo una: ridurre i tempi di approvazione di un dossier a livello Chmp da 210 a 180 giorni, quando la media attuale con i clock stop è di circa 400, non è un fatto semplice. Quindi l’utilizzo di intelligenza artificiale a livello di Chmp potrebbe essere un grande aiuto, come pure un grande volano di accelerazione per le valutazioni del Pharmacovigilance risk assessement commitee (Prac). Quanti dubbi abbiamo avuto a volte nella lettura di certi dati complessi sui vaccini che arrivavano dal mondo reale? Quindi, di nuovo, l’intelligenza artificiale potrebbe dare una grande mano, e quindi ben venga. Cito an-che un terzo elemento riportato da Mario Draghi, ovvero le sperimentazioni cliniche multinazionali.

Si attendono novità in Europa…

Si è già fatto tantissimo, sia con il Regolamento sull’accelerazione delle sperimentazioni cliniche (Act Eu), sia con la creazione del Clinical trials information system (Ctis) del database gestito da Ema. Tutto questo a partire dal Clinical trials regulation (Ctr) che ahimè ha dieci anni di vita ed è già vecchio, andrebbe già emendato, rivisto, potenziato. Una delle grandi certezze che abbiamo acquisito è che per avere dei risultati brillanti bisogna accelerare e avere sperimentazioni più veloci, più rappresentative, anche con più pazienti. Per far questo c’è bisogno di uno sforzo globale. I Single arms trials che andavano molto di moda a livello nazionale, ormai hanno fatto il loro tempo. Non possiamo più fondare la nostra ricerca e le nostre valutazioni su attività non di respiro europeo (fatta forse eccezioni per alcune realtà particolari, quando ad esempio i pazienti sono molto pochi, come per alcune malattie orfane). Queste sperimentazioni multinazionali vanno adesso ulteriormente definite e so che Ema è molto attiva al riguardo. Ci saranno nuovi meeting prima di fine anno proprio con tutti gli stakeholder, ma ho una preoccupazione…

Vale a dire?

Mi pare che a volte siano proprio gli Stati membri a essere eccessivamente prudenti, hanno un atteggiamento troppo difensivo rispetto a queste sperimentazioni più vaste e ai rispettivi protocolli, forse perché gelosi di certe prassi cliniche nei propri Paesi, oppure perché condizionati dai comitati etici locali. Fanno un po’ fatica nel guardare i benefici del lavorare tutti insieme su scenari più ampi e livello europeo. Ecco: spero che queste diffidenze vengano meno, man mano che si va avanti, perché bisogna correre. Come dice Draghi, ogni giorno che passa è un giorno in meno per la nostra competitività. Quella dei trial è un’area in cui bisogna mettere il cambio in posizione sport.

Un tema a cui lei accennava all’inizio riguarda il conflitto di interessi. La Corte di Giustizia europea recentemente si è rivolta a Ema richiamandola a vigilare di più e meglio sulla composizione dei propri panel di valutazione. Entro il 10 novembre, inoltre, è aperta una consultazione pubblica per preparare un nuovo regolamento sul tema. Possiamo inquadrare il problema e prevederne gli sviluppi?

L’Ema è stata per anni e anni l’agenzia europea più avanti nella gestione dei conflitti di interesse e la sua policy in materia ormai è stata rivista già quattro volte, quindi ha almeno venti anni ed era una delle più avanzate al mondo. Forse un difetto strutturale di quella policy, che è anche una virtù, è di essere molto dettagliata.

Con quale effetto?

Una delle cose che accadono quando si ha un codi-ce etico, chiamiamolo così, o comunque un codice di condotta troppo dettagliato è che poi ciascuna delle norme di dettaglio si presta ovviamente ad attacchi da parte di chi abbia interesse a evidenzia-re delle possibili irregolarità. Una recente sconfitta in secondo grado, dopo la vittoria di Ema nel primo grado di giudizio, dipende proprio nel fatto che, da un lato, la Corte di Giustizia ha evidenziato eccessi-vi dettagli e qualche incertezza nella policy di Ema e dall’altro ha innovato rispetto alla sua giurisprudenza precedente. La Corte è arrivata a sostenere un principio assolutamente radicale. In particolare, ritiene che la presenza di un membro anche in uno scientific advisory group (sag) – quindi non l’organismo decisionale, ma di mero supporto scientifico al Chmp – che abbia avuto a che fare, come consulente, con un qualsiasi prodotto competitor sul mercato, vizi a monte il procedimento registrativo. Va detto che “competitor” secondo l’interpretazione data dalla Corte vuol dire “intercambiabile” sotto il profilo terapeutico e clinico.

Dov’è la novità?

Rispetto alla precedente giurisprudenza è un principio piuttosto innovativo. Sia perché prima i sag, cioè gli organi consultivi, non avendo potere decisionale, non erano immediatamente visti come forieri di un possibile conflitto, sia perché ci si era limitati a considerare solo i ruoli apicali in questi gruppi consultivi, quindi presidente, vice-presidente, rapporteur. Il principio invece adesso è esteso a tutti i membri. Nuova, rispetto alla policy Ema, anche la definizione del prodotto “rivale” come intercambiabile terapeuticamente, che è un concetto adoperato per esempio dalla DG competition della Commissione o dalla Corte in pro-cedimenti di M&A, quindi in ambito di diritto della concorrenza. Si tratta di un concetto importante perché poi l’intercambiabilità clinica può essere interpretata in molti modi.

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Cosa succede adesso?

Il grande problema sarà di arrivare a una nuova policy di Ema che tenga conto degli insegnamenti della Corte (sicuramente da rispettare e implementare) ma che però consideri altre due cose. La prima riguarda, appunto, l’evoluzione del pensiero sulla intercambiabilità clinica tra un prodotto e un altro. Si tratta di un’idea in evoluzione e non è semplice arrivare a verità assolute. La seconda si riferisce al fatto che gli esperti clinici in Europa non sono infiniti. Le precedenti policy di Ema cercavano di trovare un compromesso, seguendo la migliore disponibilità di esperti scientifici, concedendo che ogni tanto ci potesse essere un’applicazione per eccezione, magari introducendo delle “mitigation measures” come il terzo rapporteur, per esempio. Quando ce n’era già uno che aveva avuto un contatto con un’azienda farmaceutica ma la cui competenza era tale da renderne la presenza fondamentale, allora si introduceva un terzo rap-porteur, per cercare di contemperare il peso che il primo in conflitto potesse esercitare. La sentenza adesso è più radicale. Siamo in attesa di una nuova policy che dovrebbe vedere la luce a dicembre prossimo. C’è poi stato un caso in cui il Tribunale in prima istanza è andato veramente in aberrazione, sostenendo che un istituto di ricerca, facente parte dell’organizzazione di un ospedale, che compia un’attività di ricerca su un certo farmaco, su commissione di un’industria, per ciò solo rende tutto l’ospedale in conflitto di interessi.

Come è andata a finire?

Sono lieto di poter dire che è prevalso il buon senso e a seguito del ricorso presentato da Estonia e Germania, con il supporto dell’Olanda (l’Ema si è costituita a fianco di questi Stati membri) si è riusciti a dimostrare che non è così e che non ci sono possibili assimilazioni immediate di tutto l’ente di ricerca e tutto l’ospedale solo perché un centro all’interno dell’ospedale fa questo tipo di attività. Ciò vale an-che nel caso dei medicinali per le terapie avanzate, che necessariamente si studiano e testano solo presso certi ospedali. Cosa vorrebbe dire, considerare quell’ospedale tutto in conflitto di interessi? Vediamo se il buon senso continuerà a prevalere.

Parliamo di accesso a informazioni confidenziali tipicamente contenute nel Site master file presentato dalle aziende. Che cosa c’è da migliorare per evitare il contenzioso con un ente regolatore che si trovi a detenere e potenzialmente a rendere disponibili dati sensibili a società concorrenti? Il riferimento è al caso del Plasma master file di Kedrion rispetto al quale l’azienda si opponeva al fatto che Ema potesse divulgarne alcune parti ritenute confidenziali anche dall’agenzia. La Corte di Giustizia ha poi dato ragione a Kedrion…

La domanda mi fa sentire giovane, in quanto ho dedicato gli ultimi nove anni della mia vita in Ema a casi di accesso e confidenzialità. Parto dai principi generali. Quando io arrivai nel 2013 un contenzioso opponeva Ema a due importanti industrie le quali avevano ottenuto addirittura un’ingiunzione, quindi un provvedimento d’urgenza, contro la divulgazione di loro dati preclinici e clinici. Quei contenziosi si sono poi articolati, sviluppati e sono approdati a due sentenze assolutamente miliari nel 2020, in cui tutti i punti sollevati da Ema, nella sua difesa, sono stati accolti dalla Corte europea. Quindi direi che sul problema generale su cosa sia “confidenziale”, in particolare nei clinical study reports ma anche in riferimento a dati di preclinica, la Corte di Giustizia ha detto la sua in maniera veramente tranciante, poi ripetendo queste posizioni del 2020 in altre sentenze, in primo e in secondo grado.

Venendo al caso Kedrion…

Si tratta di un caso veramente speciale. Intanto è l’unico che l’Ema ha perso in tema di accesso ai farmaci, ma questo perché per una volta era Ema a proteggere il dato confidenziale (Plasma master file). Il caso è stato perso senza che la Corte in primo grado affrontasse il merito della vicenda, cioè per un motivo di rito, un difetto di motivazione, di cui mi assumo almeno il 50% di responsabilità per-ché avevo co-firmato la lettera di accesso.

Qual è stato il difetto di motivazione?

 Nel provvedimento di diniego dell’accesso la Corte non è andata minimamente a dirci se il Plasma master file – come ho sostenuto in giudizio – dovesse essere coperto da segreto. Sono ancora oggi con-vinto che lo sia, essendo esso parte del cosiddetto modulo 3 del dossier legislativo, che contiene i se-greti sulla manifattura e anche alcuni commerciali, in particolare relativi agli accordi con i produttori di semilavorati del sangue. La Corte si è limitata a dire che Ema non aveva motivato bene. Sarebbe interessante se vi fosse un altro caso uguale e se la Corte accettasse di andare nel merito, perché magari il provvedimento di diniego stavolta l’Ema lo farebbe meglio.

Mi spingo con la mente a ipotizzare che cosa potrebbe succedere qualora, ad esempio, qualcuno impugnasse il rifiuto di Ema di rivelare ad un competitor, o semplicemente a un ente no-vax, parti rilevanti del procedimento di manifattura di un vaccino m-RNA e qual è il know how segreto alla base della produzione di quel farmaco. Se l’Ema si rifiutasse, come ha già fatto del resto, e questo rifiuto fosse impugnato in giudizio, sarebbe interessante vedere come si muoverebbe la Corte.

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È vero che in questa materia dell’accesso, in base al regolamento numero1049 del 2001, non vi sono aree di presunzione di segreto. Non ci dovrebbero essere perché il diritto dei cittadini all’accesso è superiore. Ma è anche vero che se andiamo a divulgare dati commerciali confidenziali senza che vi sia una ragione superiore, quale azienda investirà in futuro in questo settore? Chi si spingerà per esempio a darci un altro vaccino contro un’altra infezione ben più grave e complicata? Ci sono decine e decine di passaggi produttivi che restano segreti per definizione. Queste sono le grandi sfide un po’ etiche, un po’ politiche ed economiche a cui a volte l’ordine giudiziario tenta di rispondere. A volte esagerando un po’…



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