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La Corte d’appello di Perugia, con sentenza n. 651 del 16 settembre 2024, si è pronunciata in materia di inadeguatezza degli investimenti effettuati da parte di una banca nell’ambito di un contratto quadro di investimento, rispetto al profilo dell’investitore; in tale sede ha ritenuto che le azioni di banca non quotata siano strumenti finanziari illiquidi, e pertanto sottoposte a oneri rafforzati nei confronti dell’investitore.
Ha così confermato la pronuncia di primo grado che aveva ritenuto l’inosservanza di tali oneri un inadempimento grave atto a giustificare la risoluzione delle singole operazioni di investimento ex art 1453 c.c.
La Corte è stata adita dall’ente creditizio che lamentava che il giudice di prime cure aveva erroneamente ritenuto gli investimenti inadeguati, e sosteneva di aver adempiuto agli obblighi informativi, in ogni caso contestando la gravità dell’inadempimento.
Nel proprio iter argomentativo, la Corte ricorda che l’adeguatezza dell’investimento impone di considerare la natura dello strumento finanziario oggetto dell’investimento.
Trattandosi di azioni di una banca non quotate nei mercati regolamentati, non potrebbe sostenersi, come pure fa l’ente creditizio parte appellante che essi non siano illiquidi ma presentino un mero rischio di liquidità, poi effettivamente concretizzatosi nell’impossibilità di procedere alla liquidazione a richiesta dell’investitore sulla base del fatto che di norma simili titoli venivano liquidati in tempistiche di 90 giorni, anche tenuto conto degli utili della banca emittente.
La Corte d’Appello, infatti, nel rigettare tale censura, riprende la definizione di strumenti finanziari illiquidi, che ricomprende i «prodotti finanziari per i quali non sono disponibili anche per intrinseche condizioni di diritto o di fatto mercati di scambio caratterizzati da adeguati livelli di liquidità e di trasparenza che possano fornire pronti ed oggettivi parametri di riferimento […oppure] determinano per l’investitore ostacoli o limitazioni allo smobilizzo entro un lasso di tempo ragionevole, a condizioni di prezzo significative» (Consob, comunicazione 2 marzo 2009 n. 9019104).
Tale definizione ricomprende, secondo la Corte, anche quegli strumenti finanziari, come le azioni di enti creditizi non quotate in mercati regolamentati, che per il fatto di non essere quotate, ne rendono difficile lo smobilizzo.
La maggiore rischiosità connaturata agli strumenti finanziari illiquidi imponeva, anche prima dell’entrata in vigore di MIFID II, un’attenzione rafforzata verso gli investitori retail, in relazione alla valutazione di adeguatezza rispetto al profilo di rischio dell’investitore, e delle informazioni da fornire.
La Corte d’Appello evidenzia che simili cautele sono state disattese nel caso di specie.
La profilatura finanziaria avveniva infatti tardivamente; evidenziava inoltre la mancanza di conoscenze specifiche da parte dell’investitore, e in generale una certa contraddittorietà nelle risposte rese.
Questo avrebbe dovuto imporre all’intermediario una severa valutazione di adeguatezza, a cui invece l’ente creditizio non si è attenuto nel caso di specie, considerato che l’investimento in prodotti illiquidi ammontava a più di un quarto dell’intero patrimonio dell’investitore, e a quasi la totalità dello stesso portafoglio titoli.
Tanto violava anche le stesse linee guida dell’ente creditizio, dato che la classificazione dell’investitore in un profilo di rischio medio avrebbe dovuto vincolarlo all’acquisto di un portafoglio più bilanciato sotto il profilo del rischio.
La collocazione di titoli illiquidi, in questa prospettiva, risultava largamente inadeguata.
La Corte statuisce che «la banca aveva (ha) l’obbligo di valutare i bisogni del cliente in base alle esigenze dello stesso, ai suoi obiettivi d’investimento ed alle sue conoscenze, e non c’è dubbio che vendere dei titoli illiquidi ad un cliente che ha un’esperienza finanziaria “medio-bassa” (…) significava venir meno ai propri doveri di intermediario, vendendo titoli non adeguati al profilo della cliente».
L’investimento doveva piuttosto essere ricondotto al fatto che l’ente creditizio era stato acquistato dalla medesima banca che aveva emesso le azioni illiquide, essendo pertanto non terzo rispetto all’investimento.
A tanto si aggiunge che non erano state fornite le informazioni supplettive che dessero conto della rischiosità dell’investimento.
Le informazioni che l’ente creditizio allegava di avere dato ovvero «le informazioni contenute nei contratti quadro, nelle schede di adesione degli azionisti, negli ordini di acquisto o nelle note informative (effettivamente contenenti l’espressione “operazione effettuata in conflitto di interesse”)» afferma la Corte «nulla aggiungevano alle questioni della illiquidità dei titoli ed all’inadeguatezza delle operazioni in discorso».
È lampante, dunque, il grave inadempimento dell’ente creditizio.
Infatti, l’inadeguatezza degli investimenti in titoli azionari, rispetto al profilo di rischio e alle conoscenze dell’investitore, ha riguardato l’oggetto del contratto e lo stato soggettivo dell’investitore, che altrimenti mai avrebbe investito in titoli tanto rischiosi.
La Corte conferma quindi la sentenza di prime cure che accoglieva la domanda di risoluzione delle singole operazioni di investimento e non il contratto quadro.
Infatti, ricorda che «secondo autorevole giurisprudenza da cui questa Corte non ha motivo di discostarsi (Cass. n.8997/2021), le singole operazioni di investimento in valori mobiliari, benché esecutive del contratto quadro originariamente esecutive del contratto quadro originariamente stipulato dall’investitore con l’intermediario, possono essere oggetto di risoluzione in caso di inosservanza dei doveri informativi nascenti dopo la conclusione del contratto quadro».
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