Operazione “Status Quo”: condanna confermata per Maria Grazia Di Silvio. Riconosciuta l’aggravante mafiosa
La Corte di Cassazione ha confermato la condanna a 4 anni e 8 mesi di reclusione per Maria Grazia Di Silvio. I reati sono quelli di tentata estorsione con l’aggravante mafiosa (4 anni) e spaccio di sostanze stupefacenti (8 mesi). La Procura Generale aveva chiesto l’inammissibilità del ricorso presentato chiedendo di confermare la condanna per un processo nato dalle indagini dei Carabinieri del Nucleo Investigativo di Latina, diretto dal tenente colonnello Antonio De Lise, su coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia. I giudici ermellini hanno dichiarato inammissibile il ricorso e condannato Maria Grazia Di Silvio al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. La donna dovrà pagare le spese anche alle due partiti civili: Comune di Latina e associazione antimafia “Antonino Caponnetto”.
Per la Suprema Corte, rispetto alla condanna della madre dei fratelli Angelo e Salvatore Travali, a giudizio per mafia nel maxi processo “Reset”, “è assolutamente consolidato il principio per cui la circostanza aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso non presuppone necessariamente l’esistenza di un’associazione con le caratteristiche di cui all’art. 416-bis, essendo sufficiente il ricorso a modalità della condotta che evochino la forza intimidatrice “tipica” dell’agire mafioso“.
“La circostanza aggravante del metodo mafioso è, pertanto, configurabile anche a carico di soggetto – motiva la Cassazione nei confronti di Maria Grazia Di Silvio – che non faccia parte di un’associazione di tipo mafioso, ma ponga in essere, nella commissione del fatto a lui addebitato, un comportamento minaccioso tale da richiamare alla mente ed alla sensibilità del soggetto passivo quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga ad un sodalizio”.
“È sufficiente – continua ancora la Cassazione – che l’esistenza di un sodalizio appaia sullo sfondo, perché evocato dall’agente, inducendo perciò la vittima sia spinta ad adeguarsi al volere dell’aggressore”.
A giugno 2023, il collegio del Tribunale di Latina, presieduto dal giudice Gian Luca Soana – a latere i giudici Fabio Velardi e Francesco Coculo – aveva condannato, in primo grado alla stessa pena la 60enne di Latina, col rito abbreviato condizionato alla testimonianza della sua vittima.
“Graziella” Di Silvio è stata condannata per aver estorto un gestore di una pompa di benzina in Via Epitaffio, a Latina, dopo averlo accusato di aver parlato con gli inquirenti in merito a una serie di precedenti estorsioni messe in atto, negli anni, contro di lui dai figli Angelo e Salvatore Travali e affiliati dell’omonimo clan. Uno spaccato che, secondo quanto raccontato dal pentito Agostino Riccardo, si sarebbe reiterato nel tempo e cronicizzato per 20 anni.
Episodi che invece non furono denunciati dal benzinaio e che sono contestati nel processo “Reset”: in sostanza i membri del clan si rifornivano di benzina senza pagare. Nel corso del processo di primo grado, il benzinaio fu accompagnato in aula dai Carabinieri e aveva reso il suo interrogatorio pungolato dalle domande del Pm Luigia Spinelli e dal controesame dell’avvocato difensore Giancarlo Vitelli. In aula, tra il pubblico, anche due parenti della Di Silvio i quali, dopo poco, erano andati via.
Il benzinaio aveva spiegato di gestire il proprio distributore in Via Epitaffio, vicino alla casa che fu di Vera Casamoneco (l’errore nel cognome dovuto a un impiegato dell’anagrafe distratto), la sorella del padrino Vittorio Casamonica, e madre di Maria Grazia Di Silvio, nonché nonna dei Travali. Da sempre conosce la famiglia di origine rom e, come aveva spiegato a maggio 2023 nel processo “Reset” (dove anche in quella sede è stato testimone), da sempre, pur tentando di minimizzare, ha subito le tracotanze di Travali e affiliati che la metà delle volte venivano a rifornirsi di benzina non pagando.
Al termine della requisitoria nel processo di primo grado, il Pm della Procura/DDA di Roma, Luigia Spinelli, aveva chiesto una condanna a 5 anni e 4 mesi. L’accusa aveva evidenziato che l’imputata si recò presso il distributore di benzina all’indomani dell’esecuzione della maxi ordinanza denominata “Reset” (febbraio 2021), che contesta al Clan Travali/Di Silvio l’associazione mafiosa, in ragione anche delle dichiarazioni dei suoi due ex affiliati, ora collaboratori di giustizia, Renato Pugliese e Agostino Riccardo.
Era il 18 febbraio 2021 quando Maria Grazia Di Silvio, arrivando dal benzinaio, cercò di pretendere prima la somma di 2mila euro, poi quella di 1000 euro. Il Pm Spinelli aveva ricostruito il quadro in cui Di Silvio pretendeva quei soldi, sostenendo che la madre dei Travali, tramite quella azione, voleva sostanzialmente affermare due condizioni: veicolare il messaggio che gli arresti “non ci fanno niente e se denunci mi dai anche i soldi” e ripristinare il clima intimidatorio che in quegli anni aveva visto sempre soccombere il benzinaio.
In questo contesto mafioso, la richiesta dei soldi di Maria Grazia Di Silvio a una vittima storica del clan è un messaggio con cui la donna voleva stabilire che chiunque parla viene punito e deve pagare. Così come successo al tabaccaio di Latina, Marco Urbani, gambizzato e per il cui fatto sono stati condannati, col rito abbreviato e in Corte d’Appello, sempre nel medesimo procedimento odierno denominato “Status Quo”, Angelo Travali e l’ex cognato di Graziella, Mohamed Jandoubi. Riconosciuta anche in quel caso l’aggravante mafiosa. Peraltro, la gambizzazione fu messa in atto proprio perché, secondo la DDA, il tabaccaio, sette anni prima, rispetto al 2015 quando fu raggiunto dai colpi d’arma da fuoco in pieno pomeriggio e a due passi dallo Stadio del Latina Calcio, aveva denunciato Maria Grazia Di Silvio a causa di una ulteriore estorsione.
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Per quanto riguarda l’episodio per cui “Graziella” Di Silvio è stata condannata anche in secondo grado (e, ora, in Cassazione) in, alle parti civili – Associazione antimafia “Antonino Caponnetto” e Comune di Latina – sono state riconosciute somme di risarcimento.
Nel processo di primo grado, le parti civili, oltreché al Pubblico Ministero, avevano sottolineato che non vi è stata quasi una minaccia esplicita, proprio perché la nomea del clan di appartenenza faceva in modo che i cittadini cedessero subito. Di Silvio si spinse solo a dire al benzinaio “Dovemo anna’ oltre?” quando quest’ultimo si rifiutò di acconsentire alla richiesta di denaro. Più contenuta la condanna per l’episodio di spaccio di stupefacenti (8 mesi) avvenuto al piano 11 dei Palazzoni di Via Nervi, vale a dire l’appartamento da cui la figlia Valentina Travali spacciava e in cui è stata immortalata nel famigerato video rap che inneggiava ai fratelli carcerati Angelo e Salvatore Travali.
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