Cos’è davvero una startup: il quadro italiano

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Le startup sono largamente celebrate come il simbolo dell’innovazione e del futuro economico, ma in Italia il termine è spesso usato a sproposito, associato a qualunque nuova impresa con un pizzico di tecnologia o creatività. In questo articolo facciamo chiarezza sul reale significato della parola startup e sulle caratteristiche del panorama italiano, rispondendo a una domanda: saranno cruciali per il futuro del nostro Paese?

Definizione di startup: Italia vs mondo

Partiamo da un fatto conclamato, la definizione di startup, secondo i grandi pensatori del mondo tech, è chiara e specifica.

Paul Graham fondatore di Y Combinator, il più grande incubatore al mondo, descrive il fenomeno in questo modo: “A startup is a company designed to grow fast“. Erik Ries, autore di The Lean Startup, sottolinea il focus su sperimentazione e modelli di business scalabili. Peter Thiel, nel suo libro Zero to One, aggiunge poi che le startup di successo non seguono modelli già battuti ma creano nuovi mercati. Per Steve Blank infine, accademico tra i primi teorizzatori in ambito innovazione, la cosa può riassumersi in questa frase: “A startup is a temporary organization looking for a repeatable and scalable business model”.

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Per chiarire ulteriormente questi concetti, che potrebbero risultare troppo generici, ecco cinque criteri oggettivi per riconoscere una startup:

  • temporaneità: perché non si resta startup a vita, anzi, tendenzialmente ad un certo punto ci si trasforma in aziende di altro tipo – scaleup, corporate – o si fallisce nel tentativo;
  • unicità: perché, come visto, l’obiettivo è dar vita a qualcosa che innovi davvero e non limitarsi ad imitare dei modelli di business già esistenti;
  • replicabilità: intesa come capacità di offrire la stessa soluzione su larga scala grazie a processi standardizzati;
  • scalabilità: ossia essere in grado, o quanto meno avere il potenziale, di passare in modo estremamente veloce da un piccolo mercato ad uno molto grande, solitamente globale;
  • investimenti: perché una startup, di norma, è tale quando entra a far parte della filiera del Venture Capital, ovvero quando riceve capitali di rischio da fondi che investono in modo sistematico nelle startup, i VC per l’appunto.

In Italia, invece, la definizione si riduce spesso a qualcosa di simile a: ‘qualsiasi impresa nella sua fase di avvio e sviluppo iniziale’, o parafrasando Treccani ‘un’azienda innovativa di recente formazione, caratterizzata da un elevato contenuto tecnologico’.

Ed è proprio qui che nasce il nostro problema culturale, dove l’ingranaggio si inceppa. Una confusione generalizzata che porta ad assimilare una qualsiasi piccola o media impresa, magari particolarmente creativa e virtuosa nell’uso di tecnologia e digitale, all’essere una startup. Nonostante, come visto, il vero scopo sia crescere esponenzialmente e scalare su mercati globali: insomma, degli obiettivi totalmente diversi da quelli di aziende tradizionali. 

Lo stato della nostra industria: i 5 pilastri di un ecosistema

Veniamo ora ad un’altra serie di aspetti cruciali. Un ecosistema startup di successo si basa infatti su quelli che possono essere individuati come cinque pilastri fondamentali. Dei veri e propri ingredienti per raggiungere una maturità tale da iniziare a produrre ‘unicorni’ con continuità, ossia aziende che superano il miliardo di valutazione di mercato prima della quotazione in borsa. Pilastri che entrando nel vivo di quanto accennato possono essere così riassunti:

cultura: intesa non come conoscenza specifica ma come insieme di principi insiti nel modo di pensare di un determinato gruppo sociale, in questo caso volti a promuovere l’imprenditorialità come valore socio-economico tangibile. In Italia invece la paura del fallimento è ancora troppo diffusa, incentrata sul cercare di evitarlo invece che gestirlo e accettarlo come normale e propedeutico processo per arrivare ai propri obiettivi;

talento: checché se ne dica l’Italia ha eccellenze accademiche, creative e imprenditoriali, ma la fuga di cervelli è un problema cronico. Troppo spesso i migliori talenti, quelli che potrebbero essere founder o dipendenti di estremo valore, emigrano verso ecosistemi più attraenti come Stati Uniti, Svizzera, Francia e via discorrendo;

accesso al capitale: nonostante nel nostro Paese il capitale in senso lato non manchi, seppur in forma ridotta rispetto a altri, il venture capital italiano è ancora debole rispetto ad altri ecosistemi. Secondo i dati di StartupItalia, ad esempio, gli investimenti VC in Italia rappresentano meno di un sesto di quelli attuati in Francia;

densità: ecosistemi come quello di San Francisco, per citare l’esempio principale, prosperano grazie alla concentrazione di startup, investitori, mentor, advisor e università nello stesso luogo. Qui da noi, invece, manca una vera ‘startup city’, e la nostra densità si diluisce tra Milano, Torino, Roma ed altre;

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legal framework: l’ultimo aspetto chiave, è avere la possibilità di muoversi in un quadro normativo favorevole sia ai founder di startup che agli investitori. Cosa che dovrebbe tradursi in processi burocratici snelli, incentivi, e strategie chiare, ma su molti di questi punti siamo ancora indietro. Sono però da citare in quest’ottica gli ultimi aggiornamenti legislativi in materia, un importante passo in avanti: trovi a questo link un approfondimento.

Come incide l’Europa

Visto quanto descritto fino ad ora, c’è un punto che sorge spontaneo, ossia in che modo l’Europa gioca il suo ruolo in tutto ciò. Infatti, soprattutto nell’attuale panorama geopolitico mondiale, l’industria dell’innovazione diventa il campo dove giocare la partita della competitività economica. Tra gli USA, sempre più leader nel concentrare i migliori talenti globali, e una Cina che con strategie principalmente statali sta ampliando la sua influenza, l’UE rischia di restare relegata al ruolo di fanalino di coda. Ruolo che, fino ad ora, l’Europa ha spesso ricoperto, con capitali investiti molto inferiori e un numero minore di startup di successo nate nell’ambito dei propri confini.

Marginalità figlia soprattutto di alcune macro-problematiche, prima tra tutte la frammentazione del mercato europeo, che per lingue, culture e leggi differenti rende complesso scalare un’azienda in più paesi dell’unione. Questo incide negativamente sui criteri descritti nel paragrafo precedente, contribuendo al disequilibrio già citato.

Ma cosa si sta facendo per colmarlo? In tal senso sono sicuramente da nominare due importanti iniziative. 

In primo luogo, la creazione della nuova Commissione Europea Startup, Ricerca e Innovazione, che sarà guidata dalla bulgara Ekaterina Zaharieva. Passaggio storico e significativo, che rappresenta un segnale tangibile di come la politica europea stia finalmente riconoscendo l’importanza del settore.

Secondo poi, le sempre più presenti discussioni attorno alla possibilità di un 28esimo regime per tutte le startup europee. Riassumendo in breve, la volontà di unificare sotto un’unica entità aziendale le aziende innovative dell’Unione. Prevedendo fiscalità, burocrazia e incentivi paritari l’obiettivo è ovviamente quello di colmare il gap, quantomeno legislativo, mirando ad un mercato sempre più condiviso e meno frammentato.

Conclusione

Tiriamo le somme riprendendo la domanda iniziale, le startup saranno cruciali per il futuro del nostro Paese?

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Esprimersi aprioristicamente è difficile, ma proviamo a lasciare una previsione: continuare ad ignorare quest’industria rischia di condannare l’Italia a perdere competitività a livello globale. E rimanendo ai margini delle prossime rivoluzioni tecnologiche, dovremo affrontare conseguenze economiche, sociali e politiche significative nei prossimi anni.Citando nuovamente Peter Thiel,every innovation comes from a project that breaks the schemes, l’Italia riuscirà in tal senso a rompere i propri schemi?

A cura di

Vittorio Verardi – Presidente Needs Startup Association



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