Abstract
L’analisi si concentra sulle problematiche relative alla firma digitale apposta dai giudici tributari ai provvedimenti giudiziari, rispetto alle quali si manifestano delicate questioni che vanno dalla sua riconoscibilità, alla sua autenticità, fino al dubbio di esistenza quando un documento nativo digitale viene necessariamente riprodotto in formato analogico. Si tratta di innovazioni tecnologiche non esenti dal rigoroso rispetto delle tradizionali finalità codicistiche, ovvero garantire certezza giuridica dell’origine del giudicato e della sua piena efficacia.
Digitised sentences in tax proceedings: the digital signature between invalidity and intelligibility –The analysis focuses on the issues related to the digital signature affixed by tax judges to judicial orders, regarding which delicate questions arise, ranging from its recognizability to its authenticity, and even to doubts about its existence when a natively digital document must necessarily be reproduced in analog format. These are technological innovations that are not exempt from the rigorous respect of the traditional codified purposes, namely, to ensure legal certainty regarding the origin of the judgment and its full effectiveness.
Sommario: 1. Firma digitale e quadro normativo di riferimento nel processo tributario. – 2. La sottoscrizione digitale della sentenza fra processo civile e processo tributario. – 2.1. La sottoscrizione come requisito essenziale della sentenza. – 2.2. La nullità per mancanza di sottoscrizione. – 2.3. La sottoscrizione delle sentenze collegiali. – 2.4. La sottoscrizione olografa della sentenza per la quale è richiesta la sottoscrizione digitale. – 3. I mezzi di generazione della firma digitale alla luce delle prevalenti interpretazioni giurisprudenziali. – 4. Il problema delle copie delle sentenze firmate digitalmente. – 5. Conclusione.
1. Le innovazioni contenute nel D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 220, “Disposizioni in materia di contenzioso tributario”, hanno sancito la definitiva transizione al deposito digitale di tutti gli atti processuali (sul processo tributario riformato, v. Contrino A. et al., La giustizia tributaria, Milano, 2024, in partic. cap. I, par. 4).
Per effetto di tali misure, gli atti del processo, i verbali, i provvedimenti giurisdizionali devono essere redatti in modo chiaro e sintetico. Inoltre, tutti gli atti e i provvedimenti del giudice tributario, dei suoi ausiliari e quelli delle segreterie delle Corti di Giustizia tributaria, nonché gli atti delle parti e dei difensori devono essere sottoscritti con firma digitale. In pratica, al fondo delle sentenze non si troverà più la firma olografa del presidente del collegio e del relatore, bensì un glifo e i codici identificativi delle firme digitali.
Di conseguenza, la mancata sottoscrizione con firma digitale dei provvedimenti giudiziari del giudice tributario determina la loro nullità (art. 17-ter, comma 4, D.Lgs. n. 546/1992, introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. h), D.Lgs. n. 220/2023). Tali disposizioni si applicano ai giudizi instaurati, in primo e in secondo grado, con ricorso notificato successivamente al 1° settembre 2024 (art. 4, comma 2, cit.).
Pertanto, gli atti processuali, salvo casi eccezionali, non potranno più essere cartacei, facendo così ingresso, anche nel rito tributario, le procedure telematiche di redazione e di deposito dei provvedimenti giudiziali con apposizione delle firme digitali (art. 17-ter, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992). Si tratta di un traguardo raggiunto attraverso un percorso graduale, iniziato da diverse Corti di Giustizia tributaria, che già prima dell’entrata in vigore della norma, avevano sperimentato la completa digitalizzazione, mentre, presso altre, in assenza di un obbligo di legge, sopravvivevano gli atti cartacei.
In ogni caso, va ricordato che i giudici tributari anche dopo il 1° settembre 2024, potranno continuare ad apporre la tradizionale firma olografa sugli atti processuali cartacei, ma soltanto «nei casi eccezionali previsti dalle norme tecniche per il processo tributario telematico» (art. 79, comma 2-quater, D.Lgs. n. 546/1992).
2. A questo punto, appare necessario domandarsi cosa effettivamente cambi e quali criticità si possano riscontrare, a seguito dell’innovazione in esame, tenuto conto che si impone una nuova modalità di firma rispetto a un documento ormai privo di una materialità cartacea, sul quale non è più possibile apporre una firma olografa.
Data per presupposta l’importanza formale della sottoscrizione, sancita dalla legge che stabilisce la conseguenza della nullità per il caso della sua mancanza, quando si tratti di firma digitale emerge una serie di questioni che devono essere affrontate e che si atteggiano in modo diverso rispetto alle problematiche che tradizionalmente hanno accompagnato la dogmatica della sottoscrizione olografa degli atti.
Gli scenari possibili, infatti, non si limitano ai soli casi di presenza o assenza della firma digitale, della sua riconoscibilità o della sua autenticità. Occorre, invero, interrogarsi anche sulle conseguenze che si producono quando un documento nativo digitale sia necessariamente riprodotto in formato analogico e sul possibile diverso atteggiarsi delle contestazioni in merito alla validità della firma stessa, in relazione alle tecnologie e alle apparecchiature utilizzate.
In proposito, sembra opportuno premettere che, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. s), D.Lgs. n. 82/2005, Codice dell’Amministrazione Digitale (C.A.D.), la firma digitale è «un particolare tipo di firma qualificata basata su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare di firma elettronica tramite la chiave privata e a un soggetto terzo tramite la chiave pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità di un documento informatico o di un insieme di documenti informatici». In pratica, la firma digitale risulta utile ad attribuire certezza all’identità di colui che ha generato il documento o comunque, con la sottoscrizione dello stesso, ha fatto propria l’origine del suo contenuto.
Al fine di affrontare compiutamente le problematiche poste dal nuovo obbligo di sottoscrizione digitale delle decisioni del giudice tributario, e di apprezzare le peculiarità rispetto a quelle tradizionalmente poste dalla sottoscrizione olografa, conviene prendere le mosse dalla ricostruzione della funzione dell’apposizione della firma sui provvedimenti giudiziali e, in particolare, sulle sentenze.
2.1. La principale elaborazione normativa e giurisprudenziale su questo tema proviene dal campo del processo civile, ma le conclusioni in esso tratte possono ritenersi certamente valevoli anche in materia tributaria, giusta il principio di cui all’art. 1, comma 2 , D.Lgs. n. 546/1992.
In materia, del resto, l’art. 132, comma 2, n. 5, c.p.c. è stato finora il riferimento normativo sia per il processo civile, sia per quello tributario, dove l’art. 36, comma 3 presenta per quanto d’interesse una formula analoga a quella recata dal codice di rito. Più nel dettaglio, la norma codicistica prevede che la sentenza debba contenere «la sottoscrizione del giudice», mentre la norma del D.Lgs. n. 546/1992 prescrive analogamente che la sentenza sia «sottoscritta dal presidente e dall’estensore».
Come noto, il decreto legislativo sul processo tributario non contiene un’apposita disciplina sulla nullità degli atti processuali, per cui sono proprio i principi di cui al codice di rito a doversi applicare sul punto.
In tale ambito, la mancanza di sottoscrizione della sentenza viene pacificamente ritenuta causa di nullità della stessa. Più specificamente, la nullità della sentenza per mancanza di sottoscrizione viene ritenuta integrare un caso di nullità testuale, ai sensi dell’art. 156, comma 1, c.p.c., in virtù del disposto dell’art. 161, comma 2, c.p.c. A ben vedere, peraltro, tale ultima disposizione presenta una formulazione “in negativo”, che soltanto per effetto di una lettura coordinata con l’art. 354, comma 1, c.p.c. permette di evincere l’univoca indicazione della comminatoria di nullità.
2.2. Molteplici sono le tematiche che sono sorte intorno al problema della nullità della sentenza per mancanza di sottoscrizione nell’ambito del processo civile: esse possono traslarsi nel processo tributario e, ora, anche in relazione al carattere digitale della sottoscrizione della sentenza stessa.
Un primo problema che si pone è quello della sanabilità o meno del difetto di sottoscrizione. Il problema si interseca con quello della perimetrazione dell’ambito della nullità per mancanza di sottoscrizione nel caso di provvedimenti collegiali.
Secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato, il disposto dell’art. 161, comma 2, c.p.c. deve intendersi nel senso che «la sottoscrizione della sentenza da parte del giudice costituisce un requisito essenziale della giuridica esistenza del provvedimento, la cui mancanza ne determina la nullità assoluta e insanabile (equiparabile all’inesistenza giuridica), rilevabile anche d’ufficio e anche in esito al giudizio di cassazione» (ex plurimis, Cass. civ., ord. n. 22705/2010, sent. n. 12167/2009; n. 21049/2006; n. 21193/2005; n. 11739/2004; n. 15424/2000). Per effetto di ciò, visto anche l’art. 354 c.p.c. (e analogo art. 59 D.Lgs. n. 546/1992 per il processo tributario), la carenza di sottoscrizione di una sentenza comporta la rimessione del processo al grado di giudizio in cui tale nullità si è verificata.
Naturalmente, le sottoscrizioni necessarie ai fini della validità della sentenza sono quelle dei giudici (giudice monocratico o, in caso di collegio, presidente e relatore), rimanendo irrilevante a questo fine quella del segretario, che partecipa attivamente alla sola fase di pubblicazione di una decisione già assunta e perfezionata da parte dell’organo giudicante.
Può essere utile dare atto che sul tema, peraltro, si è assistito a un’evoluzione interpretativa relativamente alle soluzioni da adottare.
La giurisprudenza di legittimità sembrava, all’inizio, accogliere la riferibilità dell’art. 161, comma 2, c.p.c, ai soli, invero rari, casi in cui la lacuna fosse causata dal rifiuto del giudice a sottoscrivere la sentenza e non anche nell’ipotesi di eventuale semplice dimenticanza, ammettendo, dunque, negli altri casi la procedura di correzione degli errori materiali, ex art. 287 c.p.c. (Cass. n. 5077/1993, n. 897/1981; n. 5540/1980; n. 4682/1976; n. 110/1970). Solo successivamente si è consolidato il filone giurisprudenziale, sopra riportato, che esclude per il caso di carenza di sottoscrizione l’applicabilità del procedimento di correzione degli errori materiali e impone al giudice che ha emesso la sentenza, e al quale è rimesso il giudizio, di provvedere al riesame del merito, non potendosi limitare a una mera rinnovazione della decisione (Cass. n. 12167/2009; n. 3254/2005; n. 16735/2004; n. 9113/2004).
Per quanto attiene al processo tributario, anche in dottrina si sono delineati due filoni di pensiero contrastanti corrispondenti a quelli della giurisprudenza di legittimità appena illustrati (per tutti, v., rispettivamente, Besso C., La sentenza civile inesistente, Torino, 1997, 294 ss.. e Pistolesi F., Il nuovo processo tributario, Milano, 1997, 442 e 527; sui profili sistematici, Consolo C. – Glendi C., Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2012, 463).
Nello specifico ambito del processo tributario, già l’art. 59, comma 1, lett. e), D.Lgs. n. 546/1992 prevedeva esplicitamente che «quando manca la sottoscrizione della sentenza da parte del giudice di primo grado […] La Corte di giustizia tributaria di secondo grado rimette la causa alla Corte di giustizia tributaria di primo grado che ha emesso la sentenza impugnata» (La Rosa S., Principi di Diritto Tributario, Torino, 2012, 451-452). A maggior ragione, ora, a seguito dell’introduzione dell’art. 17-ter – secondo cui «La mancata sottoscrizione con firma digitale dei provvedimenti giudiziari del giudice tributario determina la loro nullità» – nessun dubbio può porsi circa l’inapplicabilità nel processo tributario ai casi di carenza di sottoscrizione della procedura di correzione degli errori materiali, ex art. 287 c.p.c., essendo in ogni caso l’art. 17-ter una norma speciale rispetto all’eventuale divergente orientamento che tornasse a formarsi nel processo civile.
Le conclusioni tratte dalla giurisprudenza con riferimento alla sottoscrizione olografe, sopra riportate, si prestano a valere senza particolari differenze anche quando è richiesta la sottoscrizione digitale. Per effetto di tale diversa modalità di sottoscrizione, infatti, non si verificherà alcuna alterazione degli equilibri e delle garanzie processuali rispetto a quanto valevole per la sottoscrizione olografa, posto che la firma digitale altro non è che un’innovazione tecnologica che consente di assolvere le medesime funzioni della firma olografa.
2.3. Una precisazione merita di essere effettuata per il caso in cui la competenza a giudicare spetti al Collegio, anziché al giudice monocratico (peraltro, di recente introduzione nel processo tributario).
In tali casi, può darsi l’ipotesi in cui, per errore, la sentenza sia sottoscritta da giudici diversi da quelli che risultano aver composto il collegio. In tal caso, la nullità della sentenza continuerà a essere insanabile (Cass. n. 6494/2021).
Al contrario, laddove sul provvedimento giudiziale collegiale abbia apposto la firma soltanto uno fra presidente e relatore, la sentenza viene ritenuta affetta da una nullità, non più insanabile ai sensi dell’art. 161, comma 2 c.p.c., bensì sanabile ai sensi dell’art. 161, comma 1 (Cass., Sez. Un., n. 11021/2014). Mitigando l’originario rigore formale e tutelando i principi del giusto processo e della sua ragionevole durata, la Suprema Corte ha in tal caso ritenuto sanabile la nullità, argomentando che si tratta di sottoscrizione “insufficiente” e non totalmente mancante (Cass., Sez. Un., sent. n. 11021/2014 e ord. n. 9440/2017 e n. 9539/2015).
Anche in questo caso, i principi fissati dalla giurisprudenza in materia di processo civile valgono anche per il processo tributario e allo stesso modo per le sottoscrizioni olografe e digitali. Nessuna apprezzabile differenza sussiste, infatti,
2.4. Un tema che attiene specificamente alla sottoscrizione digitale è, invece, quello dell’eventuale sottoscrizione analogica della stessa.
Sul piano generale, è stato ritenuto che la sottoscrizione digitale di una sentenza, per la quale sia richiesta dalla legge la forma della sottoscrizione manuale, non ne infici la validità. La sottoscrizione, infatti, è posta a presidio della certa riconducibilità dell’atto al giudice e, in questa prospettiva, l’utilizzo di una forma diversa da quella prevista dalla legge, ma altrettanto idonea ad attestare univocamente la riconducibilità al giudice emanante, non sembra in effetti suscettibile di incidere sulla produzione dell’effetto che alla sottoscrizione si annette: «La mancanza di sottoscrizione invalida la sentenza perché impedisce, non tanto (e non solo) la completa formazione di un documento, quanto il perfezionamento di un atto processuale (costituito dal provvedimento del giudice qualificabile come “sentenza” ai sensi degli artt. 131 c.p.c. e segg.): il vizio sussiste quando è impossibile la riconducibilità del provvedimento che è espressione dell’attività giurisdizionale al giudice che ne è l’autore» (Cass. civ., sez. III, sent., 10 novembre 2015, n. 22871).
Principi analoghi dovrebbero valere anche nel caso in cui la sottoscrizione avvenga in formato manuale quando la legge prevede la forma digitale. D’altra parte, l’art. 15 D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, in materia di processo civile telematico, lascia propendere esattamente in tal senso, nella misura in cui, dopo aver prescritto la sottoscrizione digitale degli atti del giudice, prevede per il caso in cui la sottoscrizione avvenga in forma olografa semplicemente l’onere da parte della cancelleria di digitalizzarli, con le forme previste dalle specifiche tecniche successivamente stabilite e che contemplano essenzialmente una scansione in formato PDF con apposizione di firma digitale da parte del cancelliere (cfr. art. 16 Provv. Min. Giustizia 18 luglio 2011 e s.m.i.).
A conclusioni diverse potrebbe giungersi, peraltro, nel processo tributario, laddove la nullità della sentenza non firmata con modalità digitali è stata prevista in modo espresso dalla legge (art. 17-ter, comma 4, D.Lgs. n. 546/1992).
3. Le considerazioni da ultimo esposte confermano che, se lo scopo della firma è quello di conferire la sicura riferibilità degli atti giudiziali a uno o più specifici soggetti, non si deve incorrere nell’errore confondere la firma con i mezzi adottati o con la proprietà degli stessi.
Assumendo come riferimento la tradizionale firma olografa, è stato ritenuto che rileva il tratto di penna tracciato sulla carta e non il tipo di penna usata; tanto meno rileva la proprietà della penna, che può anche essere prestata al firmatario, per il tempo necessario a sottoscrivere il documento cartaceo. Nel caso di perizia, compiuta per il riconoscimento della firma, si ricercano i tratti distintivi della grafia e non dello strumento adottato per apporla.
Traslando il discorso alla firma digitale, la questione è meno ovvia, tanto che è stato necessario investire il grado di legittimità, per statuire che «la paternità d’un atto giudiziario telematico dipende dalla sua sottoscrizione con firma digitale, e non da altro», essendo irrilevanti eventuali metadati, riscontrabili analizzando un provvedimento nativo digitale, quali ad esempio «la stringa alfanumerica che indica l’autore tra le “proprietà” del file» (Cass. civ., sez. III, ord. 11 febbraio 2022, n. 4430).
Siccome l’estensore del provvedimento può avvalersi di elaboratori elettronici altrui o di programmi con licenza intestata ad altre persone, tra le proprietà del documento informatico potrebbe risultare l’altrui identità, ma «quel che rileva ai fini della validità della sentenza è l’autenticità e l’identificabilità della firma elettronica, non il diritto dominicale del magistrato estensore sul computer con cui è scritta, né il diritto d’uso dell’autore sul software con cui è redatta» (v. Cass. civ., sez. III, ord. 11 febbraio 2022, n. 4430). Non solo è da considerarsi irrilevante lo strumento fisico impiegato per apporre la firma, ma anche la tecnologia utilizzata, a prescindere che essa venga impiegata dal giudice o dai difensori (cfr. Giovanardi A., L’udienza di trattazione delle controversie tra istanze di digitalizzazione, crisi pandemica e riforma del processo tributario in Carinci A. – Pistolesi F., a cura di, La riforma della giustizia e del processo tributario Milano, 2022, 139 ss., ma v. anche Bruzzone M.G., I decreti del MEF su udienze a distanza e sentenze digitali non eliminano le criticità, Il fisco, 2020, 46, 4439).
In proposito, va menzionato il recente orientamento della giurisprudenza di legittimità (in materia civile, Cass., Sez. Un., n. 10266/2018; in materia penale, Cass. pen., sez. III, sent. 13 marzo 2024, n. 10470) secondo cui risulta sostanzialmente indifferente il sistema prescelto per effettuare la sottoscrizione digitale (PADES-bes, PADES-B, CADES). Tale orientamento, formatosi in materia di sottoscrizione di atti difensivi, si presta a valere anche con riferimento agli atti giudiziari. In ossequio al principio del favor impugnationis, operante nel processo penale, la causa di inammissibilità dell’impugnazione, ex art. 24, comma 6-sexies. lett. a), D.L. n. 137/2020, non può essere opposta, in considerazione del fatto che la dotazione informatica dell’Ufficio giudiziario non è in grado di verificare la validità della firma apposta dal difensore; infatti, le operazioni di generazione e di verifica delle firme non devono essere condizionate dall’utilizzo di uno specifico prodotto informatico, cosiddetto “software” (Cass. pen., sez. II, 15 giugno 2022, n. 32627; Cass. pen., sez. I, 20 dicembre 2021, n. 2784), altrimenti si realizzerebbe un condizionamento commerciale avente effetti distorsivi sul mercato.
4. Per quanto possa apparire ininfluente rispetto ai profili problematici in esame, occorre distinguere la firma digitale da una sua eventuale rappresentazione grafica.
In merito la Corte di Cassazione ha chiarito che la firma digitale non deve essere confusa con la coccarda e con la stringa alfanumerica, che comunemente appaiono in corrispondenza della sua apposizione, poiché tali segni, che appaiono sul bordo delle pagine, sono da considerarsi «segni grafici, che sono generati dal programma ministeriale in uso alle cancellerie degli uffici giudiziari e che non rappresentano, peraltro, la firma digitale, ma una mera attestazione in merito alla firma digitale apposta sull’originale di quel documento», nativo digitale (Cass., civ., sez. VI, ord. 19 settembre 2022, n. 27379; conforme a Cass. n. 11306/2021). Da questo assunto tecnico-informatico, i giudici di legittimità hanno fatto discendere la piena validità delle attestazioni di verifica di totale corrispondenza tra un originale cartaceo e una copia digitale, o viceversa, rese dai cancellieri e dagli avvocati.
Del resto, è del 2017 il pronunciamento di legittimità che ha conferito pieno valore all’attestazione di conformità apposta da un cancelliere su una copia analogica di una sentenza nativa digitale. In quel caso, la giurisprudenza di legittimità ha ratificato l’operato del pubblico ufficiale competente tenuto, per legge, a verificare la conformità all’originale di tutte le componenti della copia. L’aspetto rilevante è da individuarsi nel fatto che tra le parti componenti una sentenza si annovera anche la firma del giudice. Secondo la Suprema Corte, «A norma dell’art. 23 del C.A.D., “Le copie su supporto analogico di documento informatico, anche sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte» e l’attestazione resa dal pubblico ufficiale «dimostra anche l’avvenuta sottoscrizione da parte del giudice, senza possibilità di contestazione, se non a mezzo di querela di falso» (Cass. civ., sez. lavoro, 19 giugno 2017, n. 15074).
In sostanza, la Corte di Cassazione ha ritenuto sottesa all’attestazione di conformità, resa dal pubblico ufficiale, l’azione di verifica della presenza di una valida firma sul documento originale, prodotto in formato digitale.
Sullo stesso solco interpretativo, si pone un successivo pronunciamento, che ha riconosciuto valida la copia di una sentenza, nativa digitale, notificata in forma cartacea, previa attestazione di conformità, resa dall’avvocato notificante (Cass., civ., sez. VI, ord. 19 settembre 2022, n. 27379).
In questo secondo caso, i giudici di legittimità hanno presupposto, nell’azione dell’avvocato, la verifica della firma digitale, prima che ne attestasse la conformità, tra il documento digitale originale e la copia cartacea tratta per la notifica (con mezzi postali tradizionali).
5. Nel corso dell’indagine è stato constatato che, nonostante la firma digitale debba assolvere le stesse imprescindibili funzioni di quella olografa, la traslazione delle norme dal tradizionale piano concettuale della carta fisica a quello degli intangibili bits genera numerosi dubbi procedurali, che possono essere risolti, a nostro parere, solo facendo appello alla ratio della normativa, tenendo conto che la tecnologia deve essere funzionale a un uso più agevole delle procedure e non deve trasformarsi in un aggravamento delle stesse (anche di ordine concettuale).
Come abbiamo visto, la firma (olografa o digitale) rimane l’elemento costitutivo, per individuare senza dubbi e incertezze la legittima origine della decisione giudiziaria. Le prescrizioni tecnico-informatiche sono, quindi, da assumere come presidi posti a garanzia dell’autenticità e ad argine di rischi di alterazioni, contraffazioni e falsificazioni.
All’esito della riforma, si riducono, comunque, i divari rispetto al rito civile.
La convergenza tecnica tra il rito tributario e quello civile può, infatti, agevolare il futuro degli operatori del processo tributario, che potranno avvantaggiarsi dell’esperienza maturata. Ciò non toglie che essi dovranno, comunque, prendere dimestichezza con le nuove tecnologie, indispensabili per realizzare gli obiettivi di velocizzazione della Giustizia così come contemplati nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), nel capitolo dedicato alla Giustizia, e in particolare nel paragrafo intitolato «Gli obiettivi della riforma: il fattore tempo al centro» (55-56).
Diverse criticità operative sono già state risolte dalla giurisprudenza di legittimità, ma molte possono ancora sorgere, in relazione alla peculiare natura della firma digitale: la durata temporale delle singole firme, la titolarità di una pluralità di firme e l’utilizzo in contesti diversi rispetto a quello in cui sono state rilasciate (ambito professionale, finanziario o privato), la mancata affidabilità della firma per un tempo più o meno prolungato di malfunzionamento dei sistemi di verifica dei certificati, sono solo alcuni dei potenziali elementi suscettibili, in un futuro, di un ampio dibattito nelle sedi giudiziarie (sui profili sistematici, Consolo C. – Melis G. – Perrino A.M., a cura di, Il giudizio tributario, Milano, 2022, passim).
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(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 2/2024 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.
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