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La vicenda di Stellantis potrebbe apparire come la trama di un romanzo distopico: purtroppo, è semplicemente cronaca.
C’era una volta la Fiat, storica impresa italiana del settore della produzione di autoveicoli. Nel primo decennio del millennio, ormai sull’orlo del collasso (nonostante i generosi contributi ottenuti negli anni a carico della fiscalità generale), veniva rilanciata grazie a un nuovo piano industriale, ideato dall’allora amministratore delegato Sergio Marchionne. Un progetto tenacemente perseguito, anche resistendo al conflitto sollevato dal sindacato metalmeccanico Fiom-Cgil, guidato all’epoca già da Maurizio Landini. L’azienda si fondeva con la statunitense Chrysler, dando vita al gruppo FCA e divenendo così una multinazionale dell’automotive.
Nel 2020-2021, a sua volta, FCA si fondeva con il gruppo francese PSA (titolare, tra gli altri, del marchio Peugeot), generando Stellantis, che si afferma come quarto gruppo del settore a livello globale. Il presidente del consiglio di amministrazione è individuato in John Elkann e la carica di amministratore delegato è assunta da Carlos Tavares, con un mandato in prevista scadenza nel 2026.
Tavares abbraccia la causa green, in sintonia con le pervasive politiche di cosiddetta transizione ecologica elaborate e promosse dalla Commissione europea, estese alla produzione di automobili. Le disposizioni unieuropee impongono, a partire dal 2035, di introdurre sul mercato unicamente veicoli a “emissioni zero”. In breve, quell’anno – in assenza di revisioni – segnerà la fine del commercio di motori endotermici e il passaggio definitivo all’elettrico.
Il passaggio è epocale, ma la “conversione ecologica” sconta problemi enormi. Ristrutturare le linee per il nuovo tipo di produzione richiesto da Bruxelles, non solo richiede lunghi tempi di adattamento, ma è pure difficilmente sostenibile sul piano della concorrenza: implica piuttosto la dispersione di un patrimonio inestimabile di conoscenze ed esperienze, richiede alla manodopera un know-how che non si improvvisa, si scontra con gli ingenti costi delle materie prime. Scegliere la strada verde significa, di fatto, consegnare il primato di settore alla Cina.
Non a caso, l’Associazione dei Costruttori Europei di Automobili (ACEA), principale organizzazione europea di categoria rappresentata da Luca de Meo (amministratore delegato di Renault), avverte delle conseguenze nefaste per aziende e lavoratori. Secondo de Meo, così stando le cose, non vi sarà «altra scelta se non quella di tagliare significativamente la produzione, il che metterà a repentaglio milioni di posti di lavoro, danneggerà i consumatori e avrà un impatto negativo sulla competitività e sulla sicurezza economica dell’Ue». L’Associazione si è perciò impegnata in un confronto con le istituzioni europee per ottenere, quantomeno, un rinvio dell’applicazione delle nuove regole.
Ma Stellantis (insieme a Volvo) ha esercitato il recesso dall’Associazione sin dal 2022, proprio a causa delle diverse vedute sulle strategie da adottare. Per Tavares, infatti, «sarebbe surreale cambiare le regole adesso. Tutti conoscono le regole da molto tempo, tutti hanno avuto il tempo di prepararsi e quindi ora si corre».
Si tratta però di una corsa che rischia di terminare contro un muro. Lo scorso settembre Stellantis ha annunciato la sospensione della produzione della versione elettrica della 500, prevista nello stabilimento di Mirafiori, a causa della «persistente situazione di incertezza nelle vendite di vetture elettriche in svariati mercati europei che rappresentano il 97% della produzione di Mirafiori e di vetture del settore del lusso in alcuni paesi extraeuropei come Cina e Stati Uniti». Il gruppo, invece di ammettere di aver imboccato un vicolo cieco, decide di ricorrere alla cassa integrazione e invoca nuovi incentivi pubblici, suscitando una giusta riprovazione generale, anche considerato che dal 2016 l’azienda ha ottenuto la considerevole cifra di circa 100 milioni di euro in aiuti di Stato.
Il contesto economico generale concorre alla débâcle dell’azienda: il PIL ristagna, l’inflazione si impenna, il clima di sfiducia nel futuro incide sulla propensione al consumo delle persone. Le conseguenze investono tutti gli indicatori dell’impresa: si registra un calo verticale della capitalizzazione, del fatturato, degli utili e, come detto, delle vendite. Tutto ciò, va ricordato, travolge anche l’indotto, ossia l’insieme degli appaltatori, dei subappaltatori, dei fornitori e, ovviamente, dei loro dipendenti.
Nonostante ciò, nel corso degli anni gli azionisti hanno tratto profitto dalla distribuzione di dividendi e dal riacquisto di azioni proprie. Il che si è reso possibile sfruttando i picchi della domanda di breve periodo, associati a un innalzamento dei prezzi di vendita delle auto. L’amministratore Tavares, contestualmente, percepisce compensi compresi tra 26 e 36 milioni di euro annui, inclusi i “premi di produzione”.
Qualunque leader avveduto avrebbe tentato un cambio di rotta, rivisto gli investimenti, studiato un nuovo piano industriale. L’amministratore delegato predilige invece politiche di taglio dei costi. L’occupazione in Stellantis, negli anni, si riduce di oltre 47.000 dipendenti su un totale di 242.000, mentre si profila lo spettro della delocalizzazione di parti di attività all’estero. Il presidente Elkann viene invitato a riferire della situazione dinanzi alla Commissione attività produttive della Camera dei deputati, ma declina la richiesta.
La situazione diviene insostenibile, al punto che l’1 dicembre 2024 Tavares rassegna infine le proprie dimissioni, unanimemente accolte dal consiglio di amministrazione e immediatamente produttive di effetti.
Si apre ora una nuova fase di incertezza: ne faranno le spese anzitutto i lavoratori, anche dell’indotto, per i quali si apriranno nuovi periodi di cassa integrazione e, nei casi peggiori, procedure di esubero di personale. Con ogni probabilità il governo sarà costretto a varare provvedimenti normativi ad hoc a sostegno del reddito dei dipendenti come la cassa in deroga, finanziata con le tasse di tutti.
L’amministratore delegato dovrebbe altresì percepire una lauta indennità di fine mandato, che secondo le notizie circolate si aggirerebbe intorno a 100 milioni di euro: la cifra è stata tuttavia smentita dal gruppo. L’indignazione ha portato qualcuno a scrivere che, al contrario, occorrerebbe esercitare nei confronti di Tavares una azione di responsabilità per il proprio operato. Senonché, è difficile affermare che la sua linea non fosse perlopiù condivisa nel gruppo, viste le plurime dichiarazioni di sostegno ricevute negli anni.
Purtroppo, non vi è nulla di inedito: la questione delle politiche remunerative degli amministratori di società – nel corso e al termine del mandato – non è mai stata seriamente, generalmente approfondita. I compensi si rivelano in molti casi sproporzionati, sia in termini assoluti, sia in relazione agli obiettivi conseguiti.
Siamo dunque dinanzi a una triste pagina dell’economia, per lo spreco di talenti, per l’infruttuoso utilizzo di risorse pubbliche, per le scelte ideologiche dissennate: un requiem per il bene comune, che non può scusarsi nemmeno tenendo conto delle (reali) difficoltà di cui soffrono i mercati a causa sia della competizione globale, sia degli inopportuni vincoli normativi che, come detto, condizionano negativamente l’imprenditoria.
Un’ultima notazione con riguardo al fronte sindacale. Assistiamo periodicamente a iniziative conflittuali di squisito sapore politico (per vero, largamente disertate dai lavoratori), di nessuna utilità e in contrasto con gli interessi del Paese, come dimostra la crescente insofferenza degli utenti dei servizi. Il sindacato dovrebbe piuttosto impiegare le proprie energie negoziando piani industriali credibili, esigibili, non ideologici: sortirebbe altresì l’effetto di attrarre nel Paese soggetti imprenditoriali affidabili, spingendo verso di essi la migliore manodopera e così contribuendo realmente al bene comune.
* Professore di diritto del lavoro, Università di Pavia
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