Le nostre tasse, le loro guerre: dalla distruzione della sanità di Gaza ai conflitti finanziati con i nostri fondi

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Guerra in Medio Oriente, il paradosso dell’Occidente di finanziare i conflitti invece dei diritti umani

Il volto della guerra a Gaza ha assunto sempre più i contorni striscianti di una crociata contro la vita e ciò che può garantirla. Una sorta di prova generale del biblico Armageddon che, secondo alcune profezie, dovrebbe precedere l’arrivo dell’atteso Messia. Dal 7 ottobre 2023, l’esercito israeliano colpisce ripetutamente, con precisione chirurgica e determinazione teutonica, ospedali, ambulatori e strutture sanitarie, per tacer delle scuole. Ogni volta che si solleva un’obiezione sull’inusuale procedura, se così si può definirla, viene asserito con tono perentorio che i nosocomi sono covi di Hamas. La totale mancanza di prove a supporto di tali giustificazioni ha sollevato e continua a sollevare seri dubbi sulla legittimità delle azioni israeliane e sul rispetto del diritto internazionale umanitario.

La distruzione degli ospedali e dei centri sanitari della Striscia ha annientato il sistema sanitario di Gaza, disintegrando le possibilità di assistere le vittime. L’ospedale Kamal Adwan, baluardo di speranza per i palestinesi rimasti intrappolati nel nord di Gaza – all’inizio dell’assedio erano oltre 400.000 persone – è uno degli esempi più emblematici di questa strana guerra contro la sanità e la vita. Solo nel mese di dicembre è stato colpito più volte: i suoi generatori di corrente, i pannelli solari e la terapia intensiva sono stati messi fuori uso. I ripetuti attacchi hanno costretto i reparti essenziali a chiudere, lasciando i pazienti senza alcuna assistenza sanitaria.

Le voci dei feriti e dei sopravvissuti, diffuse attraverso i video sui social, sono cupe: “Nessun chirurgo è rimasto in ospedale.” A raccontare la gravità della situazione è anche il direttore dell’ospedale Kamal Adwan. Oggi, su Al Jazeera, il dottor Hussam Abu Safia ha dichiarato che quel che resta della struttura “è circondato da droni e carri armati israeliani” e ha implorato la comunità internazionale di intervenire per proteggere la struttura, i suoi 66 pazienti rimasti e il personale medico.

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In una dichiarazione video registrata ieri sera, Abu Safia ha inoltre affermato: “Stiamo affrontando un nuovo bombardamento diretto dell’unità di terapia intensiva. L’asilo nido, la maternità e tutti i reparti dell’ospedale sono presi di mira con tutti i tipi di armi, tra cui cecchini, proiettili di carri armati e quadricotteri. Da più di un’ora, i proiettili piovono su di noi da ogni angolo e direzione.”

Il giornalista Hani Mahmoud, di Al Jazeera, in collegamento da Deir el-Balah, ha dichiarato: “Quello a cui stiamo assistendo ora è un attacco deliberato alla struttura sanitaria”. Molte delle vittime sono state colpite dai proiettili che hanno perforato i muri dell’ospedale. Quando l’esercito israeliano ha imposto l’evacuazione del personale medico, si è generato un clima di forte intimidazione. Richard Peeperkorn, portavoce dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), ha denunciato l’assenza di preavviso e l’impossibilità di organizzare un’evacuazione sicura, cosa che ha alimentato il panico tra personale medico e pazienti.

In questo contesto di devastazione che va avanti da oltre un anno, ogni tanto emerge un piccolo barlume di luce. Mike Casey, ex funzionario del Dipartimento di Stato americano, è uno di quelli che ne ha acceso uno quando ha lasciato il suo incarico mesi fa: non riusciva più a tollerare il cieco supporto fornito dagli Stati Uniti al governo israeliano. Casey ha parlato di un’umiliazione quotidiana e di un sostegno che ignora le violazioni dei diritti umani. “Il nostro governo sta perseguendo gli interessi israeliani, ignorando la sofferenza palestinese”. E, si potrebbe aggiungere, anche quella degli stessi americani.

Negli ultimi anni, infatti, gli Stati Uniti hanno destinato circa 3,8 miliardi di dollari all’anno in assistenza militare diretta a Israele, con ulteriori milioni per programmi speciali. Una cifra impressionante in un’America dove 38 milioni di persone vivono in condizioni di grave bisogno, senza accesso a beni primari come cibo, acqua pulita o cure mediche. In altre parole, quell’America che nega l’essenziale ai suoi cittadini più vulnerabili – un’America dove, se perdi il lavoro e non puoi più garantire la tua vita a rate, perdi anche il diritto a una vita dignitosa, a una casa, rischiando di finire per strada in un lasso di tempo che va dai 6 mesi a un anno – è la stessa che spende miliardi di dollari, provenienti dal gettito fiscale, per alimentare le guerre altrui. 

L’Europa non è da meno: pur mantenendo una posizione meno trasparente, contribuisce con miliardi di euro attraverso accordi bilaterali, aiuti indiretti e progetti di cooperazione che, di fatto, supportano le infrastrutture israeliane, spesso a scapito di una condanna reale delle sue azioni (https://www.affaritaliani.it/esteri/israele-soldi-a-fiumi-dall-europa-mentre-la-macelleria-umana-non-si-ferma-950140.html). Questi fondi, alimentati da quelli pubblici provenienti dalle tasse pagate dai cittadini, e che teoricamente dovrebbero migliorare la sicurezza e favorire una stabilità regionale, vengono invece impiegati per alimentare il conflitto, mentre i cittadini europei vedono i propri servizi essenziali, inclusa la sanità, soffocati da croniche mancanze di finanziamento.

In questo scenario, emergono le contraddizioni più gravi: da un lato Stati Uniti e Europa si presentano come garanti della giustizia e dei diritti, dall’altro alimentano i conflitti. Nel caso poi di quello in corso a Gaza, siamo di fronte a una conflagrazione che sembra senza fine. Esemplare in tal senso è l’ultima dichiarazione di Netanyahu il quale, nel corso di un’intervista in merito ai negoziati per un cessate il fuoco in corso al Cairo, rilasciata a Wall Street Journal, ha detto: “Non accetterò di mettere fine alla guerra prima di aver sradicato Hamas”. Della serie, fine guerra mai.

Stando così le cose, la guerra a Gaza non rappresenta solo un attacco a un popolo, ma anche un’amara dimostrazione della fragilità e relatività della nostra concezione di giustizia e della “maculata” consapevolezza globale. Come ricordava Kofi Annan, ex segretario generale delle Nazioni Unite e premio Nobel per la pace: ‘La pace non è solo l’assenza di guerra. È la creazione di una giustizia sociale. È la capacità di trovare un equilibrio tra le esigenze di ogni individuo e di ogni gruppo. Richiede coraggio, pazienza e la volontà di guardare oltre le differenze”. Tutte qualità che al momento sembrano latitare nel caos che regna sul fronte occidentale.



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