i lobbisti tramano contro la transizione green

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Parliamo di clima con Dario Tamburrano, eletto al Parlamento europeo per il Movimento 5 Stelle, dove siede nella Commissione Industria e in quella Trasporti. E parlare di clima – in questa fase storica in cui è chiaro che la crisi climatica è già qui, eppure la politica non fa le scelte necessarie – significa parlare di multilateralismo, di repressione del dissenso, di strapotere delle lobby delle imprese “fossili” che sono la prima causa della crisi stessa.

 

Dario Tamburrano, come definirebbe l’esito della COP 29 di Baku? A suo avviso quali interessi hanno prevalso nelle trattative?

L’esito delle trattative è desolante. Si è parlato essenzialmente di soldi, o meglio di promesse di stanziamenti per affrontare i cambiamenti climatici nel Sud del mondo. Non era l’unico punto all’ordine del giorno: ma sul resto, il nulla.

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Queste promesse di finanziamenti sono esigue rispetto alle necessità reali, mentre non hanno praticamente prodotto alcunché i negoziati relativi a riduzione delle emissioni climalteranti e a monitoraggio dei risultati finora raggiunti. Peraltro, bisognerebbe cominciare a preoccuparsi anche di ridurre la pressione delle attività umane sugli ecosistemi ormai logori.

Lo considero un rifiuto, di fatto, ad occuparsi di questi temi: proprio mentre si è verificato il più repentino incremento della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera (marzo 2023-marzo 2024); e proprio mentre il 2024, oltre ad essersi ormai dimostrato l’anno più caldo di sempre, ha superato i 1,5 °C in più rispetto all’era preindustriale. Che non è un valore qualsiasi, è la soglia che, appena nel 2015 con l’Accordo di Parigi, il mondo si era impegnato a sforzarsi di non varcare.

Se alla Cop29 si è parlato praticamente solo di soldi, significa che gli interessi economici costituivano il punto di vista e il baricentro del summit. Eppure, la crisi ecologica e climatica deriva proprio dagli interessi economici legati all’attuale sistema di produzione e consumo che premia solo il profitto immediato. La causa di un problema non può esserne anche la soluzione.

Leggi anche lo SPECIALE | COP29

 

Come sa, il nostro magazine, insieme ad A Sud e a Fondazione Openpolis, ha lanciato la campagna Clean the Cop con cui abbiamo denunciato il fatto che l’Italia è il primo Paese in Europa per numero di lobbisti delle imprese delle energie fossili accreditati dal governo alla Cop sul clima di Baku. Che ruolo possono avere secondo lei questi soggetti sul buon esito delle trattative?

Per i lobbisti accreditati dal Governo italiano, basta ritoccare il proverbio e farlo diventare “Dimmi chi accrediti e ti dirò chi sei”. Non potendo negare che le energie fossili causano i cambiamenti climatici, i lobbisti delle fossili tessono trame per rimandare e diluire la transizione alle rinnovabili.

La campagna europea Fossil Free Politics ha segnalato che durante la Cop29, Italgas ha firmato accordi commerciali sulla distribuzione del gas. La pistola fumante del ruolo che i lobbisti hanno alle Conferenze sul clima: fare affari e alimentare il consumo di gas e petrolio. E ad accreditare il personale di Italgas che ha sottoscritto l’accordo è stato proprio il nostro governo. Non crede che sui badge per le Cop ci dovrebbe essere più trasparenza? Magari un dibattito in Parlamento?

Quella che lei chiama pistola fumante secondo me è l’effetto di una volontà politica, italiana e non solo. Non è la causa di ciò che è successo a Baku, ma una sua manifestazione collaterale.

Dibattito? Sì, ma vorrei un dibattito onesto e basato sui dati di fatto a proposito dello stato del Pianeta per quel che riguarda clima, emissioni e tutti gli altri aspetti della crisi ecologica (come, ad esempio, la crisi idrica). Magari non un dibattito in Parlamento perché, fatte salve alcune eccezioni, la maggioranza dei parlamentari ora in carica a Roma non sono particolarmente “ferrati” sulla materia. Ci vorrebbe un dibattito con il coinvolgimento dell’intera società civile, ma non si può dare (come invece succede in televisione) credibilità pari ai climatologi e ai negazionisti che inseguono le scie chimiche. E in questo contesto magari si potrà parlare anche dei badge per la Cop.

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 Onorevole, lei ha realizzato o intende realizzare qualche iniziativa per contrastare il fenomeno delle forti pressioni dei grandi inquinatori sulle trattative per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione?

È il mio impegno di tutti i giorni al Parlamento europeo, così come lo è stato quando ne ho fatto parte durante la legislatura 2014-2019.

Leggi anche: Clean the Cop!, al via la campagna per bandire le lobby fossili dalle delegazioni governative nei negoziati sul clima

 

Il peso degli interessi dei grandi inquinatori si è fatto sentire recentemente in diversi consessi internazionali: dalla Cop sul clima a quella della biodiversità in Colombia, passando per i negoziati sul trattato sulla plastica. Lo strumento delle Cop e in generale il multilateralismo possono essere ancora efficaci o servono modalità nuove per affrontare le questioni globali?

Il problema non è solo (o non è tanto) lo strumento, ma la volontà politica di raggiungere un determinato risultato. Se la volontà c’è, il risultato è praticamente garantito. Ma è garantito solo in quel caso.

C’è anche un altro aspetto da considerare. La crisi climatica e ambientale è un problema che impatta su tutto il pianeta; però, nell’attuale assetto geopolitico, il pianeta tende a dividersi in blocchi contrapposti e scarsamente comunicanti. In questo contesto, diventa particolarmente importante preservare una sede d’incontro globale e multilaterale. Purché, ovviamente, sia in grado di produrre dei risultati.

Cosa pensa nello specifico dei progressi fatti alla Cop29? Voci autorevoli, tra cui l’ex capo dell’UNFCCC Christiana Figueres e l’ex Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon – chiedono di riformare i meccanismi decisionali delle Cop e quelli per la scelta del Paese ospite.  È tempo di una Cop 2.0?

È tempo di una Cop efficace. Può essere tale solo se riesce a trasferire ai cittadini i benefici, anche economici, della transizione ecologica, a cominciare dal fatto che le energie rinnovabili, una volta effettuato l’investimento iniziale, sono praticamente gratuite. Questa convenienza economica deve essere riflessa nelle bollette, cosa che sappiamo non accade ad esempio in Europa dove in molti casi il prezzo del kWh è legato a quello del gas.

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Le Cop con l’assetto attuale si svolgono ormai da trent’anni durante i quali la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera, anziché diminuire, è passata da circa 360 a 420 parti per milione.

Almeno funzionano i trasferimenti di fondi dal Nord al Sud del mondo per combattere la crisi climatica che sono oggetto di trattativa durante le Cop? Stenterei a proclamarmi entusiasta.

Questi meccanismi esistono da circa un quarto di secolo. I think tank Heinrich Böll Stiftung e ODI hanno raccolto i risultati dei fondi per il clima, compresi quelli dell’ONU. C’è una differenza significativa fra le cifre promesse e quelle che i fondi hanno effettivamente ricevuto. Una simile differenza passa fra le somme che i fondi hanno incassato e quelle che hanno stanziato.

Heinrich Böll Stiftung e ODI non forniscono lumi a proposito degli stanziamenti trasformati in progetti giunti a conclusione in questo quarto di secolo. Bisogna spulciare i siti dei singoli fondi per scoprire ad esempio che l’Adaptation fund dell’ONU (aiuto alle comunità vulnerabili per adattarsi ai cambiamenti climatici) esiste dal 2010 e ha portato a termine 20 soli progetti.

Ovviamente la realizzazione di un progetto richiede del tempo; le procedure di finanziamento non possono svolgersi in un amen e rappresentano una garanzia rispetto alla gestione arbitraria, o peggio, del denaro. Però mi sembra evidente che la necessità di riforme non si può limitare ai meccanismi decisionali e alla scelta del Paese ospite.

Il 12 e il 13 novembre nella capitale dell’Azerbaigian, nel corso dei lavori della Conferenza, c’è stato il “Vertice dei leader”. Nove le donne presenti, a fronte di 73 uomini. I partecipanti accreditati alla Conferenza sono 52mila. Di questi è donna il 39,6%. C’è una questione di genere anche nelle politiche climatiche?

La questione di genere è trasversale a tutte le attività umane. Non mi spingerei a dire che la crisi climatica non è affrontata efficacemente perché il numero di donne che se ne occupano con ruoli decisionali non è sufficientemente alto. La volontà di perseguire politiche anti-ambientali o reazionarie è ben distribuita fra i generi. Abbiamo esempi molto vicini a noi, nel tempo e nello spazio, di donne simili a Margaret Thatcher.

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So di essere poco politically correct e provocatorio se dico che la crisi climatica, del resto, è come quando si va dal medico.  Servono persone brave: non importa se uomo o donna.

Per me la parità di genere è così acquisita che quando devo valutare un risultato o una situazione non faccio nemmeno caso se sono donne o uomini, io guardo il risultato. La scorsa legislatura avevo uno staff quasi esclusivamente femminile, ma non perché avessi delle quote rosa, semplicemente alle selezioni curriculari,  e poi nel lavoro, le donne sono state eccellenti.

Un’indagine del Guardian ha svelato il ruolo dell’Oil&Gas nella stretta normativa in diversi Paesi degli Stati Uniti contro le proteste degli attivisti, in particolare gli ambientalisti. Viste le norme del decreto sicurezza italiano, che criminalizzano ad esempio i blocchi stradali, pensa che anche da noi possa esserci stato lo zampino delle imprese ‘fossili’? E poi ci sono le querele di giganti come Eni contro giornalisti e attivisti….

Gli interessi delle imprese fossili vanno a braccetto con gli altri interessi economici consolidati, che a loro volta vanno a braccetto con il Governo italiano attualmente in carica: la criminalizzazione ultimamente tende a colpire tutte le proteste, che riguardino o meno il clima.

Leggi anche: L’Italia alla COP con un problema di trasparenza

 

Alcuni Paesi e alcune città del mondo stanno approvando norme per bandire dagli spazi pubblici la pubblicità dei carburanti fossili e dei beni ad alto impatto carbonico (come le crociere, i voli aerei). Hanno senso secondo lei misure del genere?

Sono come la pubblicità “Il fumo fa male” sui pacchetti di sigarette. Qualcuno ha smesso di fumare perché lo legge lì sopra?

Affidarsi alla persuasione attraverso la propaganda significa trattare le persone come bambini. Può essere irritante e controproducente. Meglio impegnarsi per diffondere le informazioni complete che gli adulti meritano.

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Dal suo osservatorio, cosa si aspetta dalla nuova legislatura europea anche alla luce della vittoria di Trump negli USA: l’impalcatura del Green Deal reggerà o sarà stravolta?

Negli USA, la differenza fra le politiche climatiche di repubblicani e democratici è fondamentalmente retorica e consiste nel fatto che soltanto i secondi a parole riconoscono l’esistenza del global warming antropogenico, pur contrastandolo ben poco con i fatti.

Quanto al Green Deal europeo, poteva sembrare promettente all’inizio ma le trasposizioni legislative hanno chiarito che esso tutela i grandi interessi industriali. Non c’è bisogno di eventuali sconquassi provenienti dall’altra sponda dell’Atlantico perché di ambientale resti ben poco.

Quali azioni metterete in campo da qui alla Cop 30 di Belèm per ottenere una posizione più coerente con gli obiettivi di decarbonizzazione da parte dell’Italia?

Con gli assetti attuali a Roma e a Bruxelles, i margini di manovra sono ristretti. Cercare di raddrizzare i provvedimenti legislativi che impattano su clima e ambiente durante l’iter verso l’approvazione certo è importante e non mancheremo di farlo, così come è importante far sentire al Governo la voce di chi porta avanti la necessità di decarbonizzazione: ma questo ben difficilmente potrà essere risolutivo, date le impostazioni di fondo finora prodotte e difese sia dal Governo italiano sia da Commissione europea, Parlamento europeo e Consiglio UE.

L’unica via consiste nella costruzione di equilibri di governo diversi e tali da permettere l’avvio della transizione ecologica e la riduzione della sofferenza sociale. Agiremo, ovviamente, anche in questo senso.

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Crisi umanitaria nel Rohingya, Bangladesh – Flickr, CC BY-NC-ND 2.0

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