Come la digitalizzazione sta ridefinendo il mondo del lavoro

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Fin dai suoi esordi, l’intelligenza artificiale ha provocato inquietudini per i suoi possibili risvolti occupazionali in termini di minore domanda di lavoro umano, grazie alla potenziale sostituibilità con quello delle macchine. Queste paure hanno compiuto nei decenni successivi un saliscendi speculare alle fortune dell’IA. Che sembrava a più riprese sul punto di arrivare ma dava luogo poi a processi molto più lenti e lievi rispetto alle previsioni.

Con la crescente diffusione dell’intelligenza artificiale generativa, è interessante approfondire il suo rapporto con il mondo del lavoro e le persone che ne fanno parte. La domanda che oggi ci dobbiamo porre è se l’accelerazione impressa dall’IA generativa e la maggiore facilità di adozione offerta dai nuovi strumenti possano rappresentare un rischio serio. D’altronde, come ha rilevato l’Economist, le ricerche su Google per la query «Il mio posto di lavoro è sicuro?» sono raddoppiate a livello mondiale nei mesi successivi all’uscita di ChatGPT.

AI e lavoro, una lunga storia di paure e opportunità

Come racconto nel libro “L’economia di ChatGPT. Tra false paure e veri rischi” (Egea), durante la campagna per le presidenziali americane del 1960, il candidato democratico John F. Kennedy produsse un opuscolo che chiedeva al (l’e)lettore: «Se l’automazione prende il sopravvento, chi vorresti alla Casa Bianca?» e nel settembre di quell’anno fece un discorso a Charleston in West Virginia, Stato di minatori, sulla «crisi crescente dell’automazione – la sostituzione degli uomini con le macchine».

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In effetti, dopo la seconda guerra mondiale e la nascita della cibernetica e poi l’avvio del programma di ricerca sull’IA, formalizzato nel 1956 con il seminario estivo a Dartmouth, l’ottimismo tecnologico statunitense era al suo picco massimo. Le stesse previsioni degli scienziati, a partire da quelle dei padri fondatori come John McCarthy e Herbert Simon, facevano ritenere che l’arrivo di macchine pensanti fosse dietro l’angolo. Certamente erano già entrati nelle grandi aziende e organizzazioni e nei principali laboratori scientifici i mainframe della IBM. A fronte della crescita delle aspettative di automazione, “intelligente” o meno, aumentavano però anche i timori sulle possibili conseguenze occupazionali.

Il dibattito dopo i successi del deep learning dello scorso decennio

Più recentemente, in seguito ai primi promettenti successi registratisi nel deep learning all’inizio dello scorso decennio, due economisti di Oxford, Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne, in un lungo paper pubblicato nel 2013 che stimava la probabilità di sostituzione per 702 professioni a fronte dell’adozione dell’IA, concludeva che circa il 47% dell’occupazione totale negli Stati Uniti rientrasse nella categoria ad alto rischio, cioè lavori che gli autori si aspettavano potessero essere automatizzati nel decennio successivo o al massimo due.

Se da allora il tasso di disoccupazione non solo non è aumentato ma anzi è significativamente diminuito un po’ dappertutto, a cominciare dai Paesi a più elevata digitalizzazione tra i quali proprio gli USA, prima di rivolgere una pernacchia ai due studiosi si può giustificarli con la circostanza che il percorso di adozione dell’IA sia stato più lento di quanto atteso (anche se questo fattore di ritardo dovrebbe far parte dei parametri stimati nel momento in cui si fanno delle previsioni).

Per esempio, i due accademici ritenevano che molti posti a rischio fossero nella logistica e nei trasporti, a causa dell’avvento della guida autonoma che prometteva di lasciare letteralmente sulla strada milioni di lavoratori (si stima tra il 5 e il 10% degli occupati totali nelle società avanzate). Previsione che, nonostante i grandi progressi tecnologici, si è rivelata del tutto fallace, almeno finora.

Il rapporto causale tra rivoluzione informatica e crescita della produttività alla prova dell’IA generativa

Senza poter ancora rispondere in maniera definitiva a questo tipo di domande, anche perché dopo due anni dall’arrivo di ChatGPT è ancora troppo presto per assistere a un’adozione di massa dell’IA generativa nelle organizzazioni (diversamente da quanto sta accadendo a livello individuale ma di questa discrepanza parleremo più avanti), proviamo a mettere in ordine i diversi argomenti. A cominciare dal controverso rapporto tra rivoluzione informatica da un lato, e dunque oggi soprattutto IA, compresa quella generativa, e produttività dall’altro. L’aumento della produttività innescato dall’IA potrebbe infatti portare a un incremento dell’output a parità di input (incluso il lavoro) oppure alla stessa quantità di produzione ottenuta però con un minore impiego di fattori produttivi, tra i quali il lavoro. Anzi, essendo le macchine una componente del capitale, in entrambi i casi si potrebbe assistere a una riduzione della quantità di lavoro impiegata.

Il problema è che finora l’assunto di base, l’aumento delle produttività, non si è praticamente mai verificato nelle diverse ondate della rivoluzione informatica. Tanto da far dire a Robert Solow, Premio Nobel per l’Economia, in un editoriale sul New York Times della seconda metà degli anni Ottanta, che «possiamo vedere l’era informatica ovunque tranne che nelle statistiche sulla produttività».

Dopo di allora, il paradosso osservato da Solow fu smentito solo una volta ma la novità si rivelò un fuoco di paglia. Tutto d’un tratto, a partire dalla metà degli anni Novanta, la crescita annuale della produttività statunitense rimbalzò da una media dell’1,44% nel periodo 1977-1994 (decisamente inferiore al 2,82% sperimentato in media tra il 1920 e il 1970) a una del 2,05% in quello 1995-2004. Peccato che l’euforia di fine secolo derivante dalla diffusione di Internet e dal boom della new economy durò poco (oltre a non registrare alcuna variazione o quasi per l’Europa ed altre economie mature) e che nel decennio successivo (2005-2014) la produttività tornò ad aumentare negli USA soltanto dell’1,3% in media all’anno.

Diverse spiegazioni, sulle quali ci siamo già soffermati in un precedente contributo per Agenda Digitale, sono state offerte per giustificare questo paradosso decisamente sorprendente (e, d’altronde, in assenza di innovazione nel campo dell’ICT la crescita è ancora inferiore, come dimostrano gli studi recentemente ripresi dal rapporto Draghi che in base a questo spiegano la gran parte del gap crescente di competitività dell’Europa nei confronti degli USA accumulato negli ultimi tre decenni).

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Maggiore produttività non significa automaticamente minore lavoro

A questo punto occorre tuttavia sgombrare il campo dall’equivoco che una maggiore produttività debba per forza avvenire alle spese dei lavoratori attuali e futuri. Dunque, ammesso che stavolta l’IA determini un aumento duraturo e significativo della produttività, quest’ultimo debba portare a una disoccupazione di massa.

Nel suo paper scientifico “The Simple Macroeconomics of AI”, pubblicato lo scorso maggio, Daron Acemoglu, economista del MIT di origine turca che ha vinto proprio quest’anno il Premio Nobel per l’Economia (insieme ai suoi due co-autori Simon Johnson e James A. Robinson), descrive con grande chiarezza espositiva i meccanismi che possono portare a un incremento della produttività. Accanto all’automazione di lavori o mansioni umani, basati dunque su un effetto sostituzione, ce ne sono ben tre che non solo non implicano una perdita di posti di lavoro ma potrebbero portare complessivamente a un aumento dell’occupazione.

Complementarietà vs sostituzione

In primo luogo, una porzione significativa dei lavoratori potrà svolgere meglio le proprie mansioni grazie all’utilizzo di strumenti di intelligenza artificiale. Questo meccanismo fa leva evidentemente sugli elementi di complementarietà tra persone e macchine. Laddove non sussistano, si assisterà a un processo di sostituzione, quando invece sono presenti vuol dire che un team misto costituito da lavoratori umani e artificiali sarà più produttivo rispetto a quelli costituiti solo da persone in carne ed ossa ma anche unicamente da bit informatici.

In uno studio pubblicato a inizio 2024 e che abbiamo già avuto modo di raccontare qui, il Fondo monetario internazionale ha elaborato un indice che a livello internazionale misura due parametri chiave, da un lato l’esposizione e dall’altro la complementarietà del lavoro umano rispetto all’IA. Un’elevata esposizione riduce la domanda di lavoro mentre un’alta complementarietà la può incrementare in quanto la produttività del lavoro umano aumenta, a patto che i lavoratori siano in possesso di competenze adeguate a sfruttarla. In base a come interagiscono i due criteri, esposizione e complementarietà, possiamo avere risultati significativamente diversi.

Se l’esposizione è elevata ma lo è anche la complementarietà, l’esito dell’introduzione massiva di IA nei luoghi di lavoro potrà essere positivo. Viceversa se a un’esposizione elevata fa fronte una complementarietà bassa, i rischi di sostituzione e conseguente perdita di posti di lavoro sarebbero decisamente più elevati. Infine, emerge una terza possibilità, quella di una esposizione bassa all’IA in tutte quelle professioni dove (almeno per ora) il ruolo dell’IA è marginale e dunque il potenziale di sostituzione è poco significativo (ma al contempo i guadagni di produttività conseguiti negli altri settori potrebbero comunque portare ad aumenti della domanda di lavoro e dunque dei salari).

Lo studio calcola che nei Paesi più avanzati tra i quali l’Italia il 60% circa dei posti di lavoro presentano un grado elevato di esposizione, con una distribuzione quasi paritaria tra quanti sono caratterizzati anche da complementarietà elevata (il 27% complessivo) e quanti invece sono a più elevato rischio di sostituzione in quanto presentano bassa complementarietà (il 33%). Lo studio del Fondo non è esente da critiche: per citare quella più macroscopica, la rappresentazione della complessità del mondo del lavoro attraverso due parametri ai quali si attribuiscono solo valori binari, alti o bassi, per intere categorie professionali e validi in tutto il mondo appare troppo semplicistica. Tuttavia, proprio questa caratteristica del modello, se spinge a non prenderne alla lettera i risultati, ci aiuta a capire i fattori in gioco e soprattutto sposta l’attenzione sulla necessità di dover collaborare al meglio con le macchine se non vogliamo esserne sostituiti. Di qui la centralità assoluta della formazione, a partire dallo sviluppo e dall’aggiornamento di quelle competenze che pur nella trasformazione in atto avranno più possibilità di rimanere distintive dell’intelligenza umana.

Altri fattori incoraggianti

Complementarietà e sostituzione non sono gli unici meccanismi in azione, alla base di una possibile crescita della produttività determinata dall’IA.

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La sostituzione infatti non riguarda solo le persone ma anche le macchine stesse. Modelli sufficientemente sofisticati di IA andranno a sostituire macchine “stupide” oppure versioni precedenti ormai obsolete. Nel primo caso, i progressi forse maggiori possiamo aspettarceli nella robotica sia industriale che di servizio, oggi nella stragrande maggioranza priva di capacità ulteriori rispetto al limitato set di istruzioni che sono in grado di eseguire in maniera deterministica. Ma è evidente anche solo guardando all’evoluzione dei prodotti più popolari dell’IA generativa che abbiamo sperimentato negli ultimi due anni quanto questo canale possa dare risultati interessanti, senza far perdere un solo posto di lavoro umano.

Infine, troppe volte ragioniamo come se il mercato del lavoro fosse dato, cioè statico, mentre è soggetto a un dinamismo elevato. E soprattutto nasceranno nuove professioni e si evolveranno significativamente quelle attuali. L’economista del lavoro David Autor ha stimato che nel 2020 oltre il 60% degli occupati negli Stati Uniti svolgevano professioni che nel 1940 non esistevano neppure. Questo è un risultato che non si produce in automatico ma grazie alla capacità del sistema di formare nuove competenze, riqualificare i lavoratori attuali e al contempo favorire l’adozione dell’IA in una modalità che, salvo eccezioni, punti a valorizzare le persone anziché sostituirle.

Due campanelli d’allarme da affrontare

Accennavamo all’inizio che l’adozione presso le aziende sta procedendo più piano rispetto a quella dei loro collaboratori.

Secondo un paper uscito a settembre, realizzato dagli economisti Alexander Bick, Adam Blandin e David J. Deming e basato su una survey di circa 5000 cittadini statunitensi, il 39,5% della popolazione americana adulta ad agosto 2024 aveva già utilizzato tool di IA generativa e addirittura il 32% lo aveva fatto almeno una volta nella settimana precedente. A livello USA, si tratta di una velocità di adozione doppia rispetto a quella di Internet nella seconda metà degli anni Novanta e di circa due volte e mezzo maggiore di quella dei personal computer. A fronte di questa diffusione a macchia d’olio, sono ancora relativamente poche le aziende che sono andate oltre la sperimentazione di strumenti di IA generativa, limitati tutt’al più a una piccola quota dei dipendenti, e più in generale di IA. Secondo Eurostat nel 2023 ad adottare almeno una tecnologia IA erano solo l’8% delle imprese europee, il 5,2% in Italia.

Gli istituti statistici nazionali potranno forse aver sottostimato l’impatto dell’IA generativa e certamente negli USA il tasso di adozione potrà essere più elevato sia per gli individui che per le organizzazioni ma la sproporzione appare evidente (anche perché quel 32% di persone che utilizzano negli Stati Uniti con frequenza questi strumenti sconta una quota di anziani, disoccupati e altre persone che non lavorano). A frenare le imprese potrebbero essere i tanti rischi attribuiti all’IA generativa, perfino superiori a quelli associati all’IA pre-ChatGPT.

A quelli legati alla privacy e alla cybersicurezza, amplificati in particolare questi ultimi nella versione generativa, si devono infatti sommare la possibile inaccuratezza, legata alle cosiddette allucinazioni, e le possibili violazioni del copyright che potrebbero avvenire durante le fasi di addestramento dei modelli. Naturalmente altri fattori dietro la più lenta adozione delle organizzazioni potrebbero banalmente derivare dalla necessità di dover riorganizzare i processi, dall’incertezza nel capire quali siano a tendere gli strumenti più utili dato il rilascio continuo di nuovi prodotti e il fatto che a livello aziendale non ci si può accontentare delle versioni gratuite usate invece da una buona fetta degli utenti individuali.

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Fatto sta che la maggioranza di quel 40% di individui che negli USA usano frequentemente tool di IA lo fa sul lavoro, oltre che a casa, esponendo dunque le imprese per le quali lavorano a un duplice rischio: da un lato quello di non beneficiare degli effetti positivi dell’IA (lasciandoli al lavoratore sotto forma di minore sforzo necessario a raggiungere gli obiettivi che ci si aspetta da lui/lei) e dall’altro di essere inconsapevolmente esposta a tutti i pericoli sommariamente ricordati sopra dai quali si è protetta rinunciando o rinviando programmi aziendali di adozione diffusa della tecnologia. Dunque, oltre al mancato beneficio la possibile beffa dei costi collaterali.

L’impatto degli agenti AI

Vi sono poi gli agenti autonomi AI: secondo molti esperti, il 2025 sarà l’anno dei bot indipendenti, oltre che intelligenti. A differenza dei chatbot o degli assistenti IA che rispondono semplicemente alle query, gli agenti promettono di completare autonomamente le attività e prendere decisioni. Da un lato, si può immaginare un numero tendente a infinito di nuovi lavoratori, in grado di aumentare l’output in maniera esponenziale, dall’altro, il potenziale di sostituzione si presenta piuttosto elevato, almeno sulla carta. In realtà, tenuto conto dei rischi che la tecnologia presenta, l’ingresso di massa degli agenti potrebbe risultare prematuro e richiede comunque una sua governance interna tutt’altro che semplice. Peraltro, con possibilità concrete che i rischi già presenti possano aumentare, se non altro perché trasparenza e spiegabilità, due caratteristiche di cui gli attuali modelli IA sono già di per sé carenti, potrebbero risultare ulteriormente compromesse.

Se il primo campanello d’allarme si riferisce a fenomeni già in atto e dovrebbe spingere all’azione, il secondo è un caveat per aiutare una riflessione extra sulle possibili conseguenze dello sviluppo tecnologico. Nella convinzione comune che il progresso debba avvenire al servizio delle persone e non contro o in sostituzione.



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