Intervista ad Anna Foa, ebrea della diaspora, storica, autrice di volumi sulla storia degli ebrei in Italia e in Europa. Ha recentemente pubblicato: Il suicidio di Israele, Editori Laterza (2024).
- Gentile Anna, nel suo libro − e nelle interviste − lei parla di “suicidio” dello Stato d’Israele, che è militare, politico ed etico. Vuole spiegare?
Parlo di suicidio militare perché la posizione militare di Israele, nel lungo periodo, può diventare molto difficile da sostenere. Se l’attuale governo israeliano riuscirà, ad esempio, in tutto o in parte, nell’intento di annettere i territori della Cisgiordania, penso che il rivolgimento in Medioriente sarà tale da minacciare l’esistenza stessa dello Stato d’Israele. Dopo il 7 ottobre 2023, dopo l’attacco di Hamas e la risposta dell’esercito israeliano, lo Stato è più a rischio di quanto fosse prima.
Parlo di suicidio in senso politico a motivo del restringimento delle libertà e della democrazia nello stesso Israele e a danno degli stessi cittadini ebrei-israeliani, non solo dei cittadini arabo-israeliani: emblematico l’ultimo attacco governativo ad Haaretz, l’unico giornale veramente libero in Israele. Ciò mostra come il carattere democratico dello Stato sia minacciato. Questa guerra è accompagnata da un pesante attacco alla democrazia.
Parlo quindi di suicidio etico di Israele, perché la violenza portata dai soldati israeliani nella Striscia – dal governo Netanyahu e dai suoi ministri – con un altissimo numero di morti civili palestinesi e la devastazione di tutta Gaza, oltre che di parte del Libano, per me significa perdita della “coscienza” critica di Israele: una coscienza civile, che, nonostante tante contraddizioni, è stata conservata nei conflitti del ’48, del ’67 e dell’82, quando si sono viste in Israele grandi manifestazioni contro la guerra, con forti e ben visibili segni di attività politica democratica.
Ecco, nell’attuale Israele io sto vedendo una caduta dell’etica democratica generale.
- Non è forse comprensibile che questo avvenga dopo il 7 ottobre, in condizione e stato di guerra?
È certamente comprensibile lo stato d’animo della popolazione dopo la mattanza del 7 ottobre, specie di quella parte che costituiva la più forte opposizione al governo di Netanyahu prima di quella data; tra l’altro quella più direttamente colpita dalla violenza di Hamas, fra la gente dei kibbutzim in prossimità della Striscia.
Oggi ho la sensazione che l’opposizione – chiamiamola genericamente di “sinistra”, benché vi facciano parte ex membri dei servizi segreti, dell’esercito e della diplomazia, compreso l’ex primo ministro Olmert – si sia tacitata e stia dicendo ben poco del “suicidio” che io vedo.
Ciò che sta facendo il governo Netanyahu è qualcosa di impresentabile al mondo. Siamo di fronte a un governo manifestamente razzista, in cui siede un personaggio come Ben-Givr, uno che in maniera indubitabile ha preparato il terreno all’assassinio del primo ministro Rabin nel 1995. Questo governo sta facendo cose che non erano mai state accettate prima in Israele.
Israele si trova quindi in una situazione senza precedenti, che, a mio giudizio, non dovrebbe essere tollerata dalla cittadinanza.
Penso che in Israele si stia vivendo una condizione di grave scoraggiamento e non stiano quindi emergendo quelle forze che avrebbero potuto e dovuto emergere, tali da porsi alla guida di una opposizione forte e determinante.
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- Perché Netanyahu dovrebbe essere messo alle strette dalla opposizione?
Innanzi tutto, per l’incapacità di prevedere e reggere l’attacco di Hamas del 7 ottobre. Ricordo che Netanyahu aveva spostato 26 divisioni dell’esercito dal “fronte” di Gaza alla Cisgiordania, lasciandolo colpevolmente sguarnito. Immediatamente dopo il 7 ottobre, quando questa cosa è risultata evidente, c’era stata una forte reazione dell’opinione pubblica israeliana. Poi tutto si è complicato: ogni protesta si è rarefatta ed è divenuta sempre più improbabile. Chi parla più oggi − tragico esempio − degli ostaggi abbandonati nelle mani di Hamas?
Poi c’è, chiaramente, la responsabilità di Netanyahu e del suo governo nei massacri compiuti nella Striscia di Gaza. Io non so se si tratti di “genocidio” o meno, in senso tecnico-giuridico. Lasciamo che siano gli organismi giuridici internazionali a stabilirlo, dandogli fiducia, non screditandoli: anche l’opposizione israeliana dovrebbe sostenerli con maggior convinzione. Ma siamo comunque in presenza di “crimini di guerra e contro l’umanità” commessi da Netanyahu: tutto questo mi sembra molto evidente e dovrebbe risultare molto più evidente a tutti in Israele.
- Arriverà il momento del giudizio politico d’Israele su Netanyahu?
Non lo so. Ma la domanda che io pongo ora è: quel momento arriverà prima che l’ultima casa di Gaza sia distrutta e rasa al suolo, con l’ultimo abitante palestinese ucciso o cacciato? Questa dovrebbe essere la priorità d’Israele: cacciare piuttosto Netanyahu e mettere fine a questa guerra terribile, con la sua violenza cieca e distruttrice.
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- Lei ha parlato di una incapacità degli ebrei d’Israele di adesione empatica alla sofferenza altrui. È un’espressione molto forte.
Parto dalla lettura dell’evento enorme del 7 ottobre: un mare di sangue è stato fatto scorrere da Hamas per far salire un muro d’odio tra i popoli, dentro e fuori di Israele, in modo tale da cancellare appunto qualsiasi forma di empatia. La reazione di Israele era dunque ampiamente prevista − anzi voluta − da parte di Hamas. Del resto, lo hanno detto esplicitamente i suoi capi: «Anche 100.000 morti per noi vanno bene, pur di portare la questione palestinese agli occhi del mondo».
Riguardo alla espressione che lei dice forte, ho ripreso un bel articolo di Haaretz di qualche mese fa, in cui si rilevava, con preoccupazione, l’incapacità degli ebrei-israeliani di avvertire la sofferenza dei palestinesi, anche da parte di quegli ebrei che sono stati più vicini e disponibili ai palestinesi.
- Quanto pesa ancora la Shoah in queste vicende dello Stato d’Israele?
In Israele vivono ancora superstiti della Shoah. E vi sono le seconde e le terze generazioni successive alla Shoah che, a detta di psicoanalisti e psichiatri, portano il peso della Shoah nella mente e nella percezione del mondo. La mattanza del 7 ottobre ha riportato il senso della oppressione di quel peso in maniera più forte in molti ebrei d’Israele.
Netanyahu non ha perso occasione di cavalcarne l’onda emotiva. Ma l’uso politico che ne sta facendo non è affatto giustificato politicamente: è ancora un modo per distrarre l’opinione pubblica israeliana da sé stessa e dalla guerra, sostenendo che tutto il mondo è contro gli ebrei e contro lo Stato d’Israele; tutto il mondo sarebbe per il ritorno dell’antisemitismo razziale.
- La percezione dell’antisemitismo – tra gli ebrei d’Israele e della diaspora – è la stessa?
Sento spesso al telefono amici e amiche che sono in Israele. Per loro la priorità è il ritorno degli ostaggi e la fine della guerra: non è l’antisemitismo nel modo dichiarato da Netanyahu. Il mondo della diaspora, effettivamente, sta pensando al ritorno dell’antisemitismo, ma quale conseguenza dei modi della guerra d’Israele su Gaza.
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- Le posizioni dei religiosi ebrei quanto pesano nella politica dello Stato d’Israele?
Bisogna saper distinguere tra religiosi semplicemente osservanti, che possono essere anche di “sinistra”, non necessariamente di “destra”, i tanti che non hanno precise posizioni religiose e gli estremisti religiosi, quelli con la kippah all’uncinetto in testa, che girano armati: spesso sono coloni. Solo questi ultimi costituiscono una fascia di religiosi particolarmente violenti, fascia che dal 1967 ad oggi si è rafforzata ed estesa sino a mandare propri rappresentanti al governo.
Anche all’interno del governo bisogna distinguere tra i religiosi ultraortodossi, che non sono legati alla ideologia della “terra” bensì alla salvaguardia dei loro figli, perché non vadano in guerra, e i religiosi alla Ben-Gvir, suprematisti e razzisti.
Costoro sono i nuovi “zeloti”. Così sono stati definiti dai manifestanti ebrei nelle piazze nel 2023: come gli zeloti del 70 d.C. stanno portando Israele, con le loro armi, incontro alla distruzione. Pensano che Dio li abbia incaricati di fare il “grande Israele”, dal “fiume al mare” e magari di andare anche oltre: sì, perché ci sono mire espansionistiche tra chi sta al Governo. Questi vogliono semplicemente disfarsi dei palestinesi.
Sono appunto armati: se domani Netanyahu dovesse cadere, se ci fosse la tregua, questi potrebbero dare luogo a una vera guerra civile.
- La confusione tra piano religioso, etnico-razziale e politico è voluta?
Certamente, si fa molta confusione. La stessa International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) nei suoi più recenti documenti avvicina molto il termine “antisemitismo” ad “antisionismo”, mentre c’è una dichiarazione congiunta di accademici israeliani e americani − la Dichiarazione di Gerusalemme del 2021 − che cerca di evitare tale sovrapposizione, proprio perché era ed è molto usata dal Governo israeliano. Netanyahu ripete ogni giorno, a ogni critica al suo operato e all’operato del suo Governo, che tale critica è antisemita.
Anche in Italia sentiamo levarsi nelle manifestazioni, negli stadi, anche su certa stampa, grida che confondono volutamente, o per ignoranza, i piani: grida antisemite. Mentre questi piani andrebbero studiati e distinti, proprio per non dare credito alle affermazioni strumentali di Netanyahu.
Netanyahu sostiene che i pronunciamenti dell’ONU e della Corte Penale Internazionale avversi a lui e al suo operato sono antisemiti. Intellettuali ebrei come Raphael Gluksmann e Daniel Cohn-Bendit sostengono esattamente il contrario.
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- Cosa prova quando vede le manifestazioni pro-pal, contro Israele?
Penso che molti studenti − ma anche loro docenti − non sappiano bene su cosa stanno manifestando: ignorano la storia degli ebrei e dello Stato d’Israele. Ho scritto il mio ultimo libro anche per loro, per spiegare, ad esempio, la molteplicità del sionismo storico, che non è assimilabile al colonialismo così come viene oggi contestato nelle piazze. Certo, le manifestazioni antisemite sono irritanti per tutti gli ebrei e non solo. Ma io penso che con gli studenti si debba parlare, spiegare queste cose. Lo sento come un mio compito: mio e di chi sa un po’ di cose; compito della nostra generazione.
- Il suo libro si conclude con una nuova visione di Israele: quale?
Auspico pure un rinnovamento radicale dei vertici palestinesi, che non abbiano più a che fare con Hamas e neppure con l’autorità palestinese com’è ora. Solo così posso contemplare la nascita di uno Stato palestinese, per quanto piccolo. E uno Stato d’Israele veramente democratico. Vedo ancora possibile uno sviluppo politico, non più militare. Basta guerre.
- L’Italia, i Paesi europei, possono avere un ruolo in questa sua visione?
Sinora hanno fatto molto poco. Penso e spero che possano fare molto di più, ad esempio sostenendo gli organismi internazionali − voluti dagli stessi Paesi europei − comprese le istituzioni di giustizia internazionale. C’è ancora molta incertezza e ambiguità.
- TuttoLibri ha definito “Il suicidio di Israele” un libro coraggioso: quanto si sta rivelando tale per lei?
Guardi, tra poche settimane avrò ottant’anni: cosa mi può succedere? Uno dei vantaggi della mia età è poter dire le cose che penso senza preoccupazioni di alcun tipo. Dopo questo libro, qualcuno mi ha tolto il saluto. Ma molti altri mi telefonano e mi scrivono per ringraziarmi, dicendomi che dal libro hanno ricevuto qualche parola di luce in mezzo a questo buio. Per me sono le gratificazioni più grandi.
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