Guerra, parola dell’anno 2024. — Il Domani d’Italia

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Guerra. È questa la parola che meglio di tutte fotografa l’anno che si chiude. Guerra. Con tutto il corollario di vocaboli associati, esiti inevitabili di quella terribile parola. Orrore, tragedia, disperazione…

Il tempo trascorre inesorabile e sempre troppo veloce; se possibile ora, nell’epoca della tecnologia digitale che tende a trasformare ogni cosa in un continuo presente senza passato e senza futuro, ancor più rapido e tumultuoso. Ragion per cui i classici esercizi di scrittura intorno ai quali si esercitano giornalisti e politologi tesi a commentare gli avvenimenti trascorsi nell’anno che va a finire e poi a illustrare lo scenario nel quale si apre quelloche va a incominciare appaiono sempre più inutili, travolti appunto dallo scorrere frenetico del tempo. “E’ già Natale. Mi sembra sia appena trascorso quello di un anno fa”, quante volte ci siamo trovati di fronte a questa espressione! E allora forse può tornare più utile ridurre il commento a una sola parola, che tutte le possa racchiudere. Come la rivista americana Time celebra nella sua copertina prenatalizia l’uomo o la donna dell’anno, qualche altra testata può indicare – magari meno pomposamente – la parola dell’anno. Che, per quanto mi riguarda, è proprio la peggiore di tutte: guerra.

Guerra dimenticata, nel Sudan devastato dallo scontro che oppone il Sudan Armed Forces, ovvero l’esercito nazionale, al gruppo paramilitare delle Rapid Support Forces. Un conflitto cheha già causato una orrenda carneficina (vengono stimate fra le 100 e le 150.000 vittime) nonché una tragedia quotidiana che affligge i circa 45 milioni di sudanesi, metà dei quali patisce la fame, generando, inevitabilmente, immensi spostamenti di esseri umani disperati: sono oltre 10 milioni gli sfollati, e oltre 2 milioni i profughi.

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Guerra crudele, a Gaza, come con indignazione espressa e non celata Papa Francesco ha voluto definire la distruzione quasi totale delle infrastrutture e delle abitazioni e degli ospedali della Striscia e ancor più l’uccisione senza pietà di tanti bimbi: crudeltà, ancor peggio di guerra. 

Un’azione militare che Israele ha condotto con ferocia e con piena consapevolezza di cosa essa avrebbe prodotto, di quante sofferenze avrebbe causato alla popolazione palestinese di quella disgraziata terra. Una vendetta per lo stupro subìto il 7 ottobre da parte di una organizzazione criminale che odia lo stato ebraico e che ha imprigionata un’intera cittadinanza, appunto quella di Gaza, entro la propria efferata ideologia, condannandola alla distruzione. 

Un’azione militare che, però, ha isolato Israele nel mondo, alienandole la simpatia e la solidarietà di molti popoli e di molti governi, perché l’entità della devastazione è stata tale da non poter far finta di non averla percepita.

Guerra senza soluzione, in Ucraina, dove la popolazione è ormai stremata psicologicamente e l’esercito composto per lo più da cittadini non militari professionisti è ormai oltre il limite dell’usura fisica e mentale dopo quasi tre anni di combattimenti. Il presidente Zelenskij sa che non potrà riconquistare il Donbass perduto e tanto meno la Crimea ma sa pure che il congelamento della situazione oggi presente sul territorio potrebbe anticipare unulteriore sviluppo negativo se alla Russia non si anteporrà un fronte difensivo davvero deterrente per Mosca. E questo si chiama NATO. Che però nessuno è oggi in grado di sapere se essa sarà ancora quella che è stata sino ad ora, posto che il ritorno di Trump a Washington reca con sé una serie di interrogativi inquietanti sul futuro dell’Alleanza. Putin, sornione, attende di vedere cosa accadrà e nel frattempo irride Zelenskij dicendosi disposto ad incontrarlo solo se indirà le elezioni e le vincerà. Atteggiandosi a controllore dell’Ucraina senza ancora averla conquistata.

Guerra finita, forse, in Siria. Ma il “forse” è da scrivere in caratteri cubitali. Tante sono le insidie che si nascondono dietro la facciata del nuovo assetto determinatosi a Damasco. La fine del regime dittatoriale di Assad, macchiatosi dei crimini più efferati contro il suo stesso popolo, è stato senz’altro un evento positivo. Per il resto, tutto è incerto. Sospeso tra speranza e timore. 

Non si può, al momento, dimenticare la provenienza materiale e ideologica di Havat Tahr al-Sham, il movimento di matrice islamica ultraradicale che si sarebbe convertito ad un islamismo moderato e tranquillizzante per i siriani non musulmani, oltre che per la comunità internazionale. Non si può, ancora, dimenticare che la Siria nord orientale è in mano ai curdi-siriani, che detengono nelle loro prigioni oltre 40.000 militanti dell’ISIS dopo essere stati protagonisti decisivi della lotta a Daesh a fianco degli americani ma ora minacciati dalla Turchia, grande regista dell’operazione che ha eliminato Assad, e dal rischio che Trump li abbandoni a sé stessi in nome del disimpegno USA dalla regione e della necessaria alleanza con Ankara, capitale sempre più ambigua ma pur sempre  geopoliticamente allocata in un quadrante confinante con le mire espansioniste russe, per quanto ora incrinate dall’esito degli eventi siriani.

Guerra diffusa: nel mondo ci sono attualmente 56 conflitti secondo i dati del Global Peace Index, della maggioranza dei quali pochi sanno e meno ancora parlano e scrivono. Ma esistono, e provocano morti, distruzioni, sofferenze, migrazioni. Perché questo sono, le guerre.



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