In Manovra il taglio alle accise sulla birra. Felici i microproduttori ma mi chiedo: cui prodest?

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Partiamo da una realtà inconfutabile: la riduzione delle accise sulla birra per produttori piccoli e medi rappresenta un’ottima notizia per i microbirrifici artigianali. L’approvazione di due emendamenti alla Legge di Bilancio, presentati dalla commissione Agricoltura alla Camera, consentirà un taglio deciso al balzello che pesa su ogni pinta della bevanda, corroborando la lenta crescita del settore degli ultimi 20 anni e mitigando gli effetti negativi del carovita sui consumi e dell’instabilità internazionale sui prezzi di produzione.

Le accise sono applicate in Italia su tabacchi, energia, carburanti e alcool. Non tutte le bevande inebrianti però: infatti il vino è esente. La birra invece è soggetta a una tassazione onerosa, più alta della media Ue: 2,99 euro all’ettolitro per ogni grado Plato. Per capirsi, su una “bionda” classica il birraio deve pagare allo Stato all’incirca 30 euro ogni 100 litri prodotti, che poi scarica a chi la beve nella misura di 15 centesimi su ogni bottiglia da 50 cl. La misura approvata taglia del 50% quest’imposizione per microbirrifici con produzione fino a 10mila ettolitri, del 30% per chi brassa fino a 30mila e del 20% fino a 60mila ettolitri di birra. Costo totale dell’operazione per le casse dello Stato inferiore ai 3 milioni di euro.

Ora, questo taglio non è in realtà una notizia nel senso di novità inaspettata. Il primo provvedimento del genere risale al 2019; la riduzione del carico fiscale era stata poi rafforzata anche nel biennio 2022-23 allargando la platea dei beneficiari con gli stessi scaglioni del più recente emendamento, per poi essere ridimensionata nel 2024 ai soli microbirrifici fino a 10mila ettolitri.

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Ma quali criteri informano la scelta di chi debba meritare lo sconto e in quale misura? Il presidente leghista della Commissione Agricoltura, Mirco Carloni, ricorda come “l’economia locale è la nostra (?) forza”, con l’impegno di valorizzare “sempre le tradizioni italiane” con incentivi su produzione e vendita. C’è chi, come Coldiretti e Consorzio Birra Italiana, plaude il taglio sottolineando il circolo virtuoso che lega attraverso la filiera delle materie prime le imprese brassicole ai campi nella promozione di una “birra agricola 100% italiana”. Assobirra, che raggruppa al suo interno i grandi produttori industriali, festeggia pubblicamente con gli altri il successo del settore artigianale (rappresentato in quota assai minoritaria al suo interno), ma sorride amaramente non avendo ottenuto uno sconto per l’intero comparto e per i suoi associati milionari che “acquistano la quasi totalità del malto d’orzo italiano”. Avete presente le etichette da supermercato, le varie imprese familiari sorte all’ombra dell’impero austroungarico nell’Ottocento e ora tutte in mano a gruppi multinazionali? Ebbene, come reclamano le loro famosissime bottiglie, anche se i dividendi finiscono all’estero le materie prime delle birre industriali, maneggiate da personale nazionale, sono spesso e volentieri coltivate “a casa nostra”.

Insomma, l’uso di ingredienti made in Italy non può essere la discriminante, anche perché le birre qui brassate che vincono premi anche all’estero (anche nell’ultima edizione dell’European Beer Star il nostro Paese è stato tra i più premiati) magari usano luppoli appena arrivati per via aerea dalla costa pacifica degli Usa o cereali dalle malterie fuori confine, e sono realizzate sulla base di tradizioni e stili belgi, inglesi o tedeschi. Chi raccoglie ammirazione e consenso, conviene inoltre sottolinearlo, sono quasi sempre birrai a capo di piccole, piccolissime realtà, come i 20 migliori produttori del Paese che si contenderanno a gennaio il titolo di “Birraio dell’Anno” a Firenze: nessuno di loro supera la prima quota di produzione di 10mila ettolitri, una rappresentazione plastica di come versatilità, inventiva e altissima qualità si trovino in quelli che per dimensioni e litraggio possono essere considerati a buon diritto “micro” birrifici.

L’impressione è che dietro questi interventi non si stagli ancora una visione pianificata, in grado di mettere in mano ai birrai, grandi e piccoli, gli strumenti necessari per superare le crisi congiunturali e strutturali e consolidare il comparto. Una visione insomma scevra di patenti e definizioni, capace di riconoscere le punte di diamante e valorizzarle a colpi di sburocratizzazione, conoscenza e lungimiranza.

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Resta da capire infine come le imprese coinvolte useranno queste disponibilità: investendo su impianti e personale e quindi scommettendo sul futuro, ritoccando in basso i listini per stimolare i consumi o risanando gli effetti della battuta d’arresto del settore registrata nell’esercizio in chiusura (contrazione del mercato, aumento dei costi di energia e materie prime, inflazione e erosione del potere di acquisto). Le accise sono sempre state considerate dagli attori della birra italiana un freno allo sviluppo: c’è solo da sperare che questa misura contribuisca a liberare la corsa in avanti di un’eccellenza che non ha ancora pienamente espresso tutte le sue potenzialità.



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