Il futuro sono i giovani: è tempo di una svolta per metterli davvero al centro della società

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di
Ferruccio de Bortoli

Ogni mese 2-3 mila ragazzi lasciano l’Italia per studiare o lavorare all’estero. Una perdita inestimabile per il Paese. Ecco perché nel 2025 non dovremmo parlare solo di pensioni: ci occorrono progetti e l’impegno per farli restare

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Nella legge di Bilancio, ormai in dirittura d’arrivo, vi sono per la verità diverse misure che favoriscono l’occupazione dei giovani, l’acquisto della prima casa, la costruzione seppur impervia di una pensione futura, molto futura ad essere onesti. Ma, nonostante tutto, la realtà dei numeri ci dice che l’Italia continua a perdere i propri giovani a un ritmo ufficiale di due o tremila al mese, ma effettivo stimabile nel triplo. Giovani che scelgono di andarsene a studiare, lavorare e risiedere all’estero senza che le statistiche ufficiali riescano a descrivere, con sufficiente precisione, il Grande Esodo.
E questo mentre il tasso di natalità si è ormai ridotto al di sotto di 1,2 figli per donna e l’Italia invecchiando tende a svuotarsi. Dal 2008 al 2023 abbiamo perso 200 mila nati l’anno, tanti quanti gli abitanti di Padova. Se poi andiamo a leggere gli ultimi dati Istat relativi ai cosiddetti Neet (Not in education, employment or training) ci accorgiamo che nel 2023 sono stimati al 16,1% della popolazione con un’età compresa tra i 15 e i 29 anni (più elevata per le femmine 17,8% che per i maschi al 14,4%).

Scelte palliative

Nel Mezzogiorno l’incidenza è doppia rispetto al centro Nord. A questo aggiungiamo che il 14% dei minori è in povertà assoluta. La situazione dei Neet è comunque migliorata pur vedendo l’Italia sempre al primo e poco onorevole posto in Europa. Nella fascia tra i 15 e 29 anni sono scesi a un milione e 405 mila. Ci sono un po’ meno inattivi perché è cresciuta l’occupazione, anche se non come in altre classi d’età. La demografia paradossalmente aiuta perché riduce l’incidenza, in assoluto e in percentuale, delle coorti più giovani rispetto al totale della popolazione.
«In ogni caso va detto che tutte le decisioni contenute nella legge di Bilancio — è l’opinione di Luca Paolazzi, direttore della Fondazione Nord Est che ha appena pubblicato un lungo studio sui giovani espatriati — hanno una portata palliativa. Sull’acquisto della casa si aiuta per esempio soprattutto chi ha alle spalle una famiglia con delle disponibilità economiche. La sensazione è che non vi sia mai un momento di autentica svolta, che si butti sempre la palla un po’ più in là in attesa di tempi migliori. La decontribuzione sull’assunzione dei giovani, che gli imprenditori si ostinano a richiedere, ha in sé un messaggio contraddittorio. Un’azienda assume un giovane perché vale o perché costa poco? E l’assunto si sentirà scelto per la propria preparazione o semplicemente tollerato perché parte di una politica di riduzione del costo del lavoro? Bisogna smetterla di dire che non hanno voglia di lavorare, sono generazioni diverse con valori diversi. Occorre un salto culturale per dimostrare a tutti i ragazzi che sono qui, soprattutto a quelli che non lavorano o studiano, oltre a quelli che sono andati all’estero, che il Paese vede nelle prossime generazioni una fonte di vita. Oggi non è così. E ne è una prova la totale sottovalutazione del capitale umano che perdiamo. Ogni giovane laureato è costato in media, in tutti i passaggi della sua educazione non solo scolastica, 300 mila euro. Una perdita complessiva enorme, intollerabile».
Dunque, la migliore politica giovanile sarebbe quella di farli sentire al centro della società, non ai margini. Del resto anche progetti ambizioni, finanziati dall’Unione europea, come Garanzia Giovani, ovvero percorsi di formazione e stabilizzazione professionale, si sono rivelati un fallimento. Lo certifica l’Inapp, l’Istituto nazionale per le analisi delle politiche pubbliche. I giovani sembrano costituire un mondo a parte, una realtà parallela. Non sono una corporazione, altrimenti otterrebbero di più. E lo si è visto nelle discussioni parlamentari sulla legge di Bilancio. Anche la più piccola microcategoria riesce a far valere meglio le proprie ragioni, giuste o sbagliate che siano.
La vasta platea dei Neet non costituisce una lobby, e a maggior ragione quelli che vivono e lavorano all’estero. Sono destinatari più di pregiudizi che di aiuti sinceri. La condizione di una generazione che rischia di essere perduta è stata fotografata, con grande profondità di analisi, dall’ultimo rapporto Censis. «La loro sfortuna — è il commento del direttore generale del Censis, Massimiliano Valerii — è l’essere i figli della denatalità, l’unica minoranza che sembra non contare nulla. Forse dovrebbero avere un peso elettorale maggiore». Aggiungiamo che, al di là dell’imbuto della ricchezza — segnalato dallo stesso Censis — che farà affluire eredità su parte di popolazione sempre più ristretta, la generazione Z risulta largamente più povera di quelle precedenti.





















































La questione abitativa (e molte altre)

Un recente paper della banca svizzera Julius Bär segnala effetti deprimenti di questa perdita di ricchezza anche sulla percezione dei diritti di cittadinanza. «In più — prosegue Valerii — i giovani costituiscono un bacino poco interessante per la politica. E infatti parliamo più di pensioni. Si sottovaluta la questione abitativa. Si avranno pure le agevolazioni bancarie sui mutui e altri piccoli vantaggi, ma con un modesto salario d’ingresso è pressoché impossibile vivere in maniera autonoma in una delle nostre grandi città. Ciò li fa sentire cittadini dimezzati. Provano la sensazione sgradevole di essere alla fine di un’era della civiltà che ha premiato altri. Danzano sugli idoli infranti del progresso. Pensate solo alla plastica: un simbolo rovesciato. Conquista del boom economico per genitori e nonni, incubo ambientale e dannazione per figli e nipoti. Il lavoro poi non ha più quella carica identitaria alla quale eravamo abituati. Per molti dei nostri giovani è privo di qualunque riconoscimento sociale. E dunque le aziende, specie per le figure più professionali, sono dei semplici passaggi, quasi fossero dei taxi presi per compiere itinerari del tutto individuali. Una volta dimettersi al buio era del tutto impensabile, oggi è persino una scelta di vita».

Il fronte delle startup

Un altro tema è quello della percezione sociale del rischio in una società che tende a proteggere i giovani dentro spazi familiari e comunitari e a deprimere se non scoraggiare il mettersi in proprio. Nei giorni scorsi è stata definita la nuova normativa sul venture capital con agevolazioni per gli investimenti in nuove attività, si presume giovanili, di investitori istituzionali (esempio i fondi pensione) e individuali. Caduta anche la norma sul minimo di capitale. Ora si aspettano molti business angel disposti a puntare su progetti innovativi. Ma il punto rimane quello di far sentire la generazione, che alimenta i Neet e gli expat, al centro delle attenzioni della società. Si prova, si fallisce, si riprova. Non ci si arrende mai. E c’è un talento in chiunque.

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