Carlone. Una favola di Natale – Periscopionline.it

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Carlone.
Una favola di Natale

Neve neve e ancora neve. Sconosciuta in città da più di dieci anni, la neve si era presa una formidabile rivincita. Era arrivata col primo buio della Vigilia e nella notte si era mutata in tempesta. Il mattino di Natale il vento era caduto ma da un cielo di ghiaccio continuavano a scendere fiocchi leggeri, grossi come pagnotte di pane.
Alle nove terminava il turno della prima colazione, gli ospiti della mensa della Caritas uscivano alla spicciolata dal grande portone di via Brasavola 19, ma nessuno se ne andava, stavano fermi lì, occupando tutta la stretta strada medievale, la neve fino alle caviglie e gli occhi al cielo a godersi lo spettacolo di Natale. Agitavano le mani, si battevano sulle spalle, parlavano e gridavano le loro lingue. Sembravano quasi felici, ma Mohamed era addirittura entusiasta, rideva, saltava, le braccia al cielo a ringraziare Allah.

Aveva quasi trent’anni Mohamed, scappato dalla sua Siria, più di metà della sua vita l’aveva passata in Italia; a Napoli, a Roma, a Torino e ora a Ferrara. Qui lo chiamavano Momo; più corto, più semplice. Quella neve lo portava indietro, al freddo inverno di Aleppo, quando il vento gelido scendeva dalle montagne e imbiancava tutta la città, la grande porta, le moschee, le chiese cristiane, la sinagoga, perfino il suo campo profughi.
Sotto la neve Momo era l’uomo più felice del mondo e allora si voltò per cercare il suo amico Carlone.
Era impossibile non notarlo, era più grosso e più alto di tutti, una torre con un berretto rosso di lana grossa su una nuvola di riccioli bianchi.
Ma Carlone non c’era. Momo tornò sui suoi passi verso la sala mensa.

Non se n’era accorto nessuno. A fine colazione Anna e Rodrigo passavano per la pulizia del salone. Ci misero una mezzora per arrivare in fondo, agli ultimi tavoli, e fu lì che trovarono Carlone, che non sembrava neanche lui, incastrato tra la panca e il pavimento di piastrelle, la faccia verso il soffitto e gli occhi aperti, azzurri e vuoti. La sua grande collana di ferro con la croce argentata toccava quasi terra. È Carlone, disse Rodrigo. Certo, è Carlone, rispose Anna, solo lui è così grosso. Anna gli toccò la faccia. Povero, almeno è morto al caldo. Smisero di pulire e andarono ad avvertire il responsabile della mensa.

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Don Andrea si trovò subito un grosso problema da risolvere, perché Carlone era un vecchio a dir poco monumentale, facciamo 150 chili, facciamo pure 180 chili. Bisognava portarlo via da lì, liberare il tavolo, si doveva apparecchiare il pranzo di Natale. Ma c’era un secondo problema: dove portare il corpo di Carlone? Gli venne in mente il posto più vicino, il piccolo ambulatorio medico a pochi passi dalla sala mensa. Lì Carlone poteva starsene a dormire tranquillo.

Don Andrea, la sua efficienza eguagliava quasi la sua bontà, afferrò il cellulare e chiamò in cucina. Subito spuntarono i tre volontari richiesti, due sulla sessantina e uno giovanissimo. I loro nomi vanno citati, ora che sono entrati nella storia: Giuseppe e Giovanni i due valenti pensionati, Gigi il ventenne, appena arruolato dalla parrocchia dell’Immacolata per far fronte al superlavoro natalizio.
Tutti e tre, più Don Andrea, più Anna e Rodrigo fanno cerchio attorno al morto, guardano con attenzione quel corpaccione rovesciato, da sopra e da sotto, cercano di capire da che parte prenderlo. In quel tempo arriva di corsa Momo, si fa strada con le braccia, rompe il cerchio e raggiunge il suo amico. Afferra la sua mano enorme, lo accarezza sulle guance, piange.
C’è bisogno di tutti, anche di Momo che continua a singhiozzare, per trasportare il corpo di Carlone nell’ambulatorio. È più pesante da morto che da vivo. A fatica riescono ad alzarlo e a metterlo lungo disteso sul tavolo dell’accettazione. A faccia in su. Ma sembra ancora un sacco informe. Gli levano il vecchio cappottone tutto rattoppato. Meglio, sotto è tutto un altro vedere, indossa una tuta fiammante rossa e blu con i bordi d’oro. Gli stivali? No no, quelli sono impresentabili. Li togliamo, dice Gigi. Li prendono in mano: questi qui avranno almeno cent’anni, peseranno cinque chili l’uno.

Si dice che a volte i morti li guardi in viso e sembrano sorridere, ma forse sono i vivi che vogliono vederlo quel sorriso a fior di labbra.  Però adesso Carlone, morto stecchito e senza stivali, rideva, rideva a piena bocca. Rideva in silenzio, ma rideva, tanto che anche il suo amico Momo aveva smesso di piangere. Insomma, così elegante (senza stivali erano apparsi anche due splendidi calzettoni rossi), la fluente capigliatura e il candido barbone, non era mai stato cosi bello. E da morto come da vivo saltava agli occhi una impressionante somiglianza con Karl Marx. Proprio lui, il famoso filosofo attaccabrighe di Treviri, e proprio da Marx aveva preso il suo soprannome, quel Carlone con cui era conosciuto in tutta la città.

Don Andrea è pieno di dubbi. Gestire un morto è la prima volta che gli capita, e poi oggi, proprio il giorno di Natale. Ma Carlone merita un trattamento speciale, lo conosce da parecchi anni, è un ospite fisso della mensa. Grande, grosso, ingombrante, ma educato. Un gigante buono, un uomo mite, a parte quella sua mania, quell’odio verso Amazon e i suoi pacchetti. Appena vedeva un corriere con un pacco in mano, lo inseguiva. Non gliene scappava uno. Affrontava lo sventurato, gli strappava di mano il pacchetto e scappava come una lepre. Come una lepre, nonostante il suo quintale e mezzo di peso.

Era stato fermato più volte dalle forze dell’ordine  e si era fatto anche qualche notte in questura. Documenti? Nessun documento. Permesso di soggiorno? Nemmeno, ho fatto la fila ma non me lo vogliono dare. Professione? Pensionato, prima facevo il postino, ero piuttosto bravo. Nazionalità? Apolide, cittadino del mondo, un po’ qui e un po’ là: scriva quello che vuole. Ma alla fine lo lasciavano sempre andare. C’era la sua crociata contro Amazon (un testimone l’aveva sentito sussurrare: mi hanno disoccupato, maledetti capitalisti di merda), ma quel Carlone era totalmente inoffensivo. Si comportava in modo eccentrico ma esemplare; nessuno conosceva la sua storia ma era benvoluto da tutti. E ai bambini regalava caramelle.

Don Andrea prende in mano la croce argentata che pende dal collo del morto: giusto, pensa, per lui ci vuole anche una messa come si deve. Magari qui accanto, in fondo alla via, nella chiesetta di Santa Teresa del Bambino Gesù, le Carmelitane non avranno obiezioni. Ora però deve chiamare le autorità competenti, ma uno di cui ci si può fidare, ad esempio il maresciallo Di Francesco, va a messa tutte le domeniche a Santa Maria in Vado.

Quando arriva Luigi (detto Gino) Di Francesco, maresciallo della Benemerita, c’è solo Momo a vegliare il morto. Gli altri sono tutti impegnati con il pranzo in mensa. Il maresciallo conosce Carlone e fa subito le condoglianze. A Momo, perché c’è solo lui nell’ambulatorio trasformato in camera ardente provvisoria.
Il maresciallo ispeziona con cura il defunto. Al polso sinistro, semicoperto dalla manica della tuta, vede spuntare un gigantesco orologio d’oro. Sembra di gran valore, commenta a voce alta il maresciallo. Con delicatezza scopre la manica fino all’avambraccio. L’orologio pare antichissimo; forse è scarico, o è rotto, segna un’ora strampalata.
Sul lato interno dell’avambraccio c’è una strana scritta, un tatuaggio con numero inciso, sette cifre, si legge male ma si legge: 1121957. Il maresciallo rimane di sale, quelle cifre le ha già viste, sono una firma inconfondibile. Solo chi è stato ad Auschwitz, solo i pochi sopravvissuti possono esibire quel marchio infame. Ma, aspetta un attimo, allora questo Carlone era un ebreo, non un cristiano. Un sosia ebreo di Carlo Marx, che tra parentesi era ebreo pure lui. Però ad Auschwitz ci mandavano a crepare anche i comunisti. Forse allora Carlone non era nemmeno ebreo, era un comunista. Un semplice comunista rompicoglioni. Magari sempre in omaggio a quel suo famoso nonno comunista, il più marxiano dei marxisti, quello che aveva dato inizio a tutta la storia.
A questo punto al maresciallo Gino Di Francesco gira un po’ la testa. È intelligente ma realista. E ragiona: sono un carabiniere, non un detective, e questo non è un giallo, qui c’è solo un uomo morto, cristiano o ebreo o comunista non fa nessuna differenza, almeno per me. Guarda Momo e gli rifà le condoglianze: Lei è un parente? No, solo un amico. Si faccia coraggio. E non si preoccupi, penso io a chiamare l’azienda mortuaria.

Il pranzo di Natale è finito. Oggi che è un giorno speciale c’è stata anche un po’ di musica, ma poi le canzoni sono finite e i poveri sono usciti dal portone. Ognuno per la sua strada, Sotto la neve, che non ha smesso per niente. Il portone dovrebbe chiudere alla cinque di sera, ma Don Andrea e Momo stanno ancora aspettando gli addetti delle pompe funebri.
Invece, come una folata di vento, entrano correndo dal portone una folla di uomini e donne in miniatura. Sono alti non più di una cinquantina di centimetri, vestiti tutti di verde con in testa un cappellino a punta rosso. Potrebbero essere nani, gnomi, o forse elfi, leprecauni, o folletti del bosco. Difficile dirlo, in ogni caso, anche se li vedi coi tuoi occhi, fai fatica a credere nella loro esistenza. Sono creature di un mondo che esiste solo nelle fiabe o nelle poesie. Il gruppo degli elfi (Don Andrea e Momo hanno scelto questa ipotesi) non sembrano per niente spaesati. Hanno un compito preciso da svolgere. E hanno una gran fretta.

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Mohamed detto Momo esce in strada seguendo il gruppo di quei piccoli esseri verdi. Sono almeno in venti a reggere sulle spalle la grande tavola di legno dove giace disteso il loro re. Gli hanno anche rimesso gli stivali e ornato la punta con due campanellini d’oro.
Usciti dal portone gli elfi voltano a sinistra, procedono lentamente in mezzo alla via ingombra di neve. Cantano sottovoce una nenia dolce e incomprensibile. Momo li segue a qualche passo di distanza. Arrivati in fondo a via Brasavola, di fronte ai ruderi della chiesa di Sant’Andrea, il corteo volta a destra per via Camposabbionario, e subito a sinistra per via Coperta. Ora si dirigono verso la grande area verde delle Mura di Ferrara.
Continua a cadere neve su neve ma la processione non si ferma, affronta con coraggio la breve salita che conduce al baluardo della Montagna. Momo è sempre dietro il corteo, non capisce dove stanno portando il suo amico Carlone, poi finalmente riesce a vederlo: sopra il torrione, vicino al bordo dove la mura strapiomba nel vallo, c’è uno strano oggetto di legno chiaro. Sembra un carro ma è senza ruote. Attaccati a quel coso ci sono dieci cavalli sbuffanti, pronti per la partenza. Cavalli con in testa le corna? Mai visto dei cavalli del genere, pensa Momo, nemmeno ad Aleppo.

Ora gli elfi hanno issato Carlone a cassetta, in due per lato lo sostengono per tenerlo seduto, qualcuno gli ha rimesso in testa il suo berrettone rosso. Si sente un grido sottile, un segnale, la carrozza si alza in una verticale perfetta, si ferma per qualche secondo appena sopra la cima gli alberi, poi parte improvvisamente, senza uno sbuffo, veloce e silenziosa come un’astronave aliena.

In copertina:  Le Mura di Ferrara  sotto le neve.

Nato a Ferrara, è innamorato del Sud (d’Italia e del Mondo) ma a Ferrara gli piace tornare. Giornalista, autore, infinito lettore. E’ stato tra i soci fondatori della cooperativa sociale “le pagine” di cui è stato presidente per tre lustri. Ha collaborato a Rocca, Linus, Cuore, il manifesto e molti altri giornali e riviste. E’ direttore responsabile di “madrugada”, trimestrale di incontri e racconti e del quotidiano online “Periscopio”. Ha tre figli di cui va ingenuamente fiero e di cui mostra le fotografie a chiunque incontra.



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