Ndrine, armi, droga e affari. Su Brescia le mani del clan

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«Nel bresciano c’è un radicamento mafioso viscido che rende difficile il nostro lavoro». Non poteva essere più chiaro il procuratore capo di Brescia Francesco Prete nel presentare l’ultima indagine che ha portato a trentadue arresti e ha smantellato un’organizzazione ben diffusa e presente, che si avvaleva di contatti col mondo della politica, dell’imprenditoria e della società civile bresciana per portare avanti i propri affari. Le accuse, molte: estorsione, traffico di armi e droga, ricettazione, usura, reati tributari e riciclaggio. Sequestrati anche beni per 1.8 milioni di euro.
Al centro dell’inchiesta la famiglia calabrese dei Tripodi, in particolare Stefano Terzo e il figlio Francesco, che nel territorio bresciano avevano costruito una locale ndranghetista. I coinvolti (politici locali, imprenditori, addirittura una religiosa) a vario titolo avrebbero, secondo i pubblici ministeri, favorito la ndrina «sia al fine di conseguire vantaggi patrimoniali illeciti sia di mantenere e consolidare la capacità operativa del sodalizio e la fama criminale del gruppo». Nel loro agire i malavitosi usavano sì la violenza tipica dell’associazione criminale di stampo ndranghetista, scrivono gli inquirenti, ma «hanno dimostrato capacità camaleontica di stare al passo con i tempi».

IN PRATICA, l’ennesima conferma di come le organizzazioni criminali, pur non abbandonando del tutto le pratiche originarie, si siano nel tempo evolute, adeguandosi al tessuto sociale del nord. Politici e imprenditori, riconoscendo l’autorità dei Tripodi, li consideravano una sorta di para-stato, a cui chiedere favori, protezione e vantaggi, dando in cambio la propria fedeltà. Tra i coinvolti, anche alcuni nomi di spicco a livello locale, finiti agli arresti domiciliari: il medico ed ex consigliere comunale di Brescia Giovanni Acri, di Fratelli d’Italia, l’ex assessore leghista all’urbanistica di Castel Mella, comune in provincia di Brescia, Mauro Galeazzi e una suora, Anna Donelli. Il primo curava i mafiosi, il secondo chiedeva voti per la sua elezione. La terza, oltre a portare assistenza spirituale, faceva da passacarte tra chi era in galera e chi fuori. L’accusa, per lei, è grave: concorso esterno in associazione mafiosa. Da quindici anni volontaria nel carcere milanese di San Vittore, grazie alla sua facilità ad avvicinare i detenuti, si era trasformata in una staffetta. Di più, in alcune intercettazioni, viene definita dagli ndranghetisti come «una dei nostri».

QUANDO una nipote aveva avuto un incidente stradale l’avrebbe rassicurata dicendole che ci avrebbero pensato «i suoi amici». In un’intervista aveva raccontato che la frequentazione delle carceri le aveva cambiato lo sguardo, facendole capire che in ognuno ci sono «grano e zizzania, e sono presenti anche in me». Per restare in metafora biblica, probabilmente nel suo campo interiore l’erba infestante ha avuto la meglio sul seme buono del frumento. I due politici della destra sono entrambi volti già conosciuti dai magistrati. Galeazzi fu arrestato nel 2011 nell’ambito di un’inchiesta per tangenti da cui fu in seguito assolto. Nell’ottobre del 2021, quando era candidato sindaco nel comune di Castel Mella, avrebbe chiesto ai Tripodi di procurargli voti in cambio di appalti pubblici. Giovanni Acri era finito agli onori delle cronache giudiziarie per i suoi rapporti non esattamente leciti con l’europarlamentare meloniano Carlo Fidanza.

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IN UN FILONE dell’indagine sulle cosiddette lobby nere, archiviata lo scorso febbraio, i magistrati scoprirono che l’europarlamentare aveva chiesto a Acri, all’epoca consigliere comunale a Brescia, di dimettersi per far entrare al suo posto in consiglio Giangiacomo Calovini, esponente della sua corrente. In cambio Fidanza aveva poi assunto come assistente il figlio di Calovini a Strasburgo. Per quei fatti entrambi hanno patteggiato. Stavolta Acri avrebbe messo a disposizione le sue abilità di medico «in occasione di ferimenti degli appartenenti al sodalizio». In pratica avrebbe medicato le loro ferite dovute a «incidenti sul lavoro». Così come per la suora, sicuramente nel rispetto della missione caritatevole imposta dal cattolicesimo.



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