La contraddizione della sicilianità, un’identità smentita dalla lingua

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Il tema dell’identità italiana, e delle minacce a cui sarebbe esposta, preoccupa molto le destre di oggi: la sentono in pericolo e vogliono proteggerla in tutti i campi, a partire dall’alimentazione. Tra gli obiettivi del programma elettorale 2022 di Fratelli d’Italia appariva infatti la difesa dei «simboli della nostra identità», anche se non si indicava quali fossero. La questione dell’identità italiana, o anche regionale, inesistente per molti nostri connazionali (me incluso), sembra invece essere particolarmente viva in talune aree, come Sicilia e Sardegna. Insulari ma tutt’altro che isolate, se non altro per il flusso di personale politico di cui riforniscono il Paese da decenni, nelle due isole il dibattito sulle rispettive identità è quasi un’inquietudine ricorrente.

Conosco intellettuali di rilievo che si firmano in atti pubblici col nome sardo (Gnazziu, Franciscu ecc.), e la rivendicazione del sardo come “lingua” ha ormai alle spalle molti anni. La regione siciliana, per parte sua, ha creato dal 2001 un assessorato dei beni culturali e dell’identità siciliana, e molti, se non tutti, gli intellettuali isolani si pongono, in modo più o meno esplicito, domande come: «Qual è la natura di noi siciliani? In che cosa siamo diversi dagli altri?». 

Da Pirandello a Gramsci

Nel caso della Sicilia, la risposta più frequente invoca la “sicilitudine” (con allusione un po’ tirata per i capelli alla négritude rivendicata nel secolo scorso dai poeti Aimé Césaire e Léopold Sédar Senghor come specificità della cultura africana), cioè l’idea di un’isola non riconosciuta come “nazione”, ignorata e maltrattata, e perciò in perpetuo credito di riparazioni e risarcimenti. Nel suo libro Sicilia isola continentale. Psicoanalisi di una identità (Sellerio, euro 16), Franco Lo Piparo, filosofo con una felice vena saggistica, prende una linea diversa, che direi illuministica: l’identità siciliana – è la sua tesi – è un mito, creato soprattutto da narrazioni e rappresentazioni senza fondamento.

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Lo Piparo menziona diversi esempi di queste narrazioni, anche di fonte illustre: per Pirandello, i siciliani «hanno un’istintiva paura della vita […] ognuno si fa isola a sé»; per Sciascia, sentono «[l]a paura del domani e l’insicurezza». Per Giovanni Gentile, la Sicilia è un’«isola […] sempre sequestrata, a causa del mare e della scarsezza dei commerci, da ogni relazione col resto del mondo»; per Gramsci, «è la regione che ha più attivamente resistito a questa manomissione della storia e delle libertà», cioè al tentativo postunitario di fare sparire le regioni e con esse i dialetti. Si potrebbe anche aggiungere la teoria pirandelliana (ripresa da Sciascia) delle tre “corde” dell’animus siciliano: la civile e la “pazza”.

Di queste opinioni e rappresentazioni, talvolta maturate (come nel caso di Gramsci) senza aver mai messo piede sull’isola, Lo Piparo intende fare giustizia. L’identità siciliana è solo “presunta”. I siciliani stessi, se da un lato hanno esaltato la propria peculiarità, si sono poi regolarmente smentiti con pratiche di segno opposto. Per smontare il racconto dell’identità, Lo Piparo, che, oltre a essere filosofo, ha un forte penchant verso la storia degli idiomi della sua terra, si concentra con un forte e prolungato zoom sulle lingue dell’isola, una prospettiva singolare e audace, per motivi che dirò alla fine.

Il grosso del libro è infatti l’esplorazione appassionata di una foltissima documentazione, sia libraria che archivistica, di quel che i siciliani, in fasi diverse della storia, hanno fatto e detto a proposito della lingua che usano.

Il siculoitaliano

Nel percorso spuntano diverse pepite di grande interesse. Ne cito un paio. In un formulario siciliano duecentesco scritto in caratteri greci l’officiante annota le domande da rivolgere ai nubendi al momento delle nozze: «Komu aviti nomu?» chiede per cominciare. Alla donna poi domanda se vuole «prindiri a kistu misèr pir vostru litzitimu maritu». Secondo Lo Piparo, la comprensione di questo testo antico «non pone problemi né a chi oggi parla il siciliano né a chi oggi conosce la lingua italiana. Il testo è a pari titolo documento del siciliano antico e dell’italiano antico».

È un’affermazione un po’ forte, ma Lo Piparo non esita a chiamare siculoitaliano quest’idioma originario. Dato questo sostrato, nel momento in cui il toscano diventò modello per la lingua letteraria in tutta Italia, cioè tra Due e Trecento, «in Sicilia [lo] si usava già». I poeti della duecentesca Scuola Siciliana non ebbero quindi bisogno di fingere una lingua non loro: esisteva già – secondo Lo Piparo – un toscoitaliano. «La originaria e autoctona italianità del siciliano popolare» si rileva per esempio, nelle iscrizioni cinquecentesche sugli ex voto popolari: tra quelle dei devoti di santa Maria della Croce di Scicli (Ragusa) se ne trova alcune come la seguente: «Sendu malata a lectu, una donna de una grandissima infirmitati et per virtuti de Sancta Maria de la Cruchi fu libra».

Insomma, la tesi di Lo Piparo è che i siciliani scrivono una lingua che è quasi italiano e si capisce senza difficoltà sin dalle fasi più remote. Per questo, anche la Costituzione del 1812 («il primo documento politico con cui la Sicilia moderna e pre-unitaria proclama, in perfetta lingua italiana, la propria indipendenza») non fa cenno a rivendicazioni di autonomia linguistica.

Uno tra i più sorprendenti esempi di questa contraddizione si trova nel teatro dei pupi, antichissima tradizione isolana, dove gli eroi (Carlo Magno e i paladini) parlano in italiano, sia pure traballante, mentre quelli negativi (musulmani e saraceni) usano una rozza forma di siciliano. Per di più, nelle note di scena di una storia su Garibaldi e Anita in lotta coi pellirosse, il puparo appunta: «Le pellirosse, essendo selvaggi, parlano il dialetto», mentre Garibaldi e Anita si esprimono in italiano.

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Le identità collettive

A cavallo tra il pamphlet vibrante e lo studio investigativo pieno di sorprese (secondo uno stile che è felicemente proprio dell’autore), questo Sicilia isola continentale vuole essere anche una «psicoanalisi di una identità», come suggerisce il sottotitolo. «La sicilianità altro non è che la presunzione di credersi unici o [… credersi] metafora del mondo. […] E questa non è caratteristica che accomuna tutti i gruppi umani?».

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Il lettore esce istruito, sorpreso e a tratti divertito da questa lettura così ricca, ma non sempre è del tutto convinto dall’ipotesi di fondo, secondo cui la lingua dei siciliani non è che una forma di italiano, e che, per conseguenza, i siciliani siano indistinguibili come collettività. È arduo usare come solo terreno di argomentazione la lingua, soprattutto quando (come in questo caso) si tratta solo di lingua scritta e non pronunciata.

Inoltre, le identità collettive, se sono spiccate, si riconoscono negli atteggiamenti e nelle credenze, nelle usanze e nei gesti, nei proverbi e nei convenevoli, nei silenzi e nei sottintesi – tutti tratti che si conservano indelebili anche negli expat: in questa chiave, a me pare indubbio che ci siano atteggiamenti e credenze riconoscibilmente tipici della Sicilia, come altri della Campania, del Veneto, della Capitale ecc.

Aggiungo, scherzando ma non troppo, che è difficile trovare sarde a beccafico, i vari tipi di falsomagro o gli sfinciuni su tavole che non abbiano a che fare con la Sicilia e con i siciliani.

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