Poca economia rispetto alle ultime conferenze stampa di fine (o inizio) anno. L’incontro di Giorgia Meloni con i giornalisti, subito dopo la liberazione di Cecilia Sala, con la riforma della giustizia appena approdata alla Camera e a dieci giorni dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, si è concentrato inevitabilmente su geopolitica e politica interna. La premier ci ha messo del suo: su lavoro, industria, fisco e costi dell’energia ha risposto svicolando, senza mai annunciare novità concrete per affrontare i nodi che preoccupano famiglie e imprese.
Dribblate le domande su inattivi e disoccupazione giovanile– Meloni ha detto che il governo “ha fatto molto” ma ammesso che sul lavoro “non si fa mai abbastanza”. Poi però, come al solito, si è concentrata su pochi e selezionati dati positivi: “la disoccupazione ai minimi storici”, visto che a novembre è scesa al 5,7%, “l’occupazione ai massimi dall’unità d’Italia” (ma nel 1861 l’Istat non esisteva) e “883mila nuove assunzioni in questi due anni”. E qui, a voler essere pignoli, iniziano i problemi: secondo gli ultimi dati Istat, dal suo arrivo a Palazzo Chigi gli occupati sono aumentati di 815mila unità di cui solo 668mila effettivamente “assunti”, perché gli altri sono lavoratori autonomi. Vero, invece, che considerando solo quelli assunti a tempo indeterminato il conto arriva “al milione di posti di lavoro” di berlusconiana memoria (nel frattempo i precari sono diminuiti). La leader di Fratelli d’Italia ha poi dribblato la domanda su cosa il governo intenda fare per contrastare disoccupazione giovanile e aumento degli inattivi, prendendola larga: ha detto che non basta “incidere sui contratti“, chiamato in causa la formazione e l’orientamento, rivendicato la riforma degli istituti tecnici che ha debuttato a settembre, evocato un futuribile “gruppo di lavoro che si concentri sulle giovani generazioni” per affrontare il nodo dei Neet. Nulla sul fatto che nell’ultimo anno in Italia gli inattivi sono cresciuti più degli occupati e gli under 35 con un posto sono diminuiti, mentre ben 335mila sono finiti tra gli inattivi.
Gaffe su decontribuzione Sud, nulla sulle crisi aziendali– La premier ha svicolato quando le è stato chiesto come intenda muoversi a fronte dell’aumento dei tavoli di crisi aziendale (e dei lavoratori coinvolti) e del calo della produzione industriale che va avanti da 21 mesi consecutivi, 25 se si esclude il gennaio 2023. Tasto dolente, trattandosi esattamente dell’arco di tempo che l’ha vista al governo. Si è limitata a dire che “si andrà avanti sulla strada tracciata” che consiste nel premiare le aziende che assumono con misure come “decontribuzione Sud e più assumi meno paghi”, fino alla nuova Ires premiale. Peccato che l’esonero contributivo del 30% introdotto durante la pandemia per i datori di lavoro con sede nel Mezzogiorno sia appena stato abolito perché Bruxelles non ha rinnovato l’autorizzazione al maxi aiuto di Stato: di lì è arrivato un risparmio di oltre 5 miliardi che il governo ha utilizzato per finanziare la manovra. Quanto alla riduzione dell’Ires per le aziende che assumono, non ricorrono alla cig e accantonano la maggior parte degli utili, a beneficiarne secondo il Mef saranno solo 18mila società. E anche al netto dei numeri, è arduo credere che basti una mini agevolazione, valida solo per un anno, per convincere gli imprenditori (che nel frattempo hanno visto cancellare l’Aiuto per la crescita economica) a firmare contratti a tempo indeterminato: il vantaggio andrà dunque a chi avrebbe assunto comunque. Altrettanto difficile che per tornare a “un’industria forte” basti una strategia incentrata, come ha detto Meloni, sul sogno di fare dell’Italia “l’hub per l’approvvigionamento energetico”, sulla “economia blu” e sulla generica “tutela del made in Italy“. Malaccorto il riferimento a Transizione 5.0, le agevolazioni fiscali per investimenti innovativi in digitalizzazione e transizione green: non sono mai decollate causa difficoltà burocratiche, tanto che in manovra è stato necessario modificare i criteri.