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Chi si accosta allo studio dei terremoti che tra il 9 e l’11 gennaio 1693 sconvolsero la Sicilia sudorientale si accorge immediatamente di una stranezza. Quello che è classificato come il più forte terremoto (magnitudo Mw 7.3 per la scossa dell’11 gennaio 1693, Fig. 1) dell’intero catalogo sismico italiano (CPTI15 – Catalogo Parametrico dei Terremoti Italiani) gode “di buona stampa”, come faceva notare lo storico Giuseppe Giarrizzo.
È come se la spaventosa sorte delle 54.000 vittime e la distruzione integrale di importanti città come Noto e Catania (Fig. 2, Fig. 3, Fig. 4) passasse in secondo piano, offuscata dalla magnificenza della ricostruzione e dalla persistenza nell’immaginario, non soltanto siciliano, della mitica figura di Giuseppe Lanza, Duca di Camastra, l’uomo che gestì sia la fase dell’emergenza post sismica che le prime fondamentali fasi di quella svolta urbanistica e artistica che tutt’oggi il mondo conosce come il barocco del Val di Noto.
In questo senso, il paragone con la sequela di eventi sismici che hanno colpito, dopo il 1693, la Sicilia, è improponibile. Dagli eventi calabro-siciliani del 1783, dal terremoto di Messina e Reggio del 1908 e dal terremoto del Belice del 1968, infatti, l’isola è uscita con un bagaglio di ritardi istituzionali, approcci approssimativi ed errori urbanistici che, al contrario di quanto accaduto per i terremoti del 1693, ha fatto sì che l’opinione generalizzata fosse estremamente negativa. La descrizione degli eventi sismici del 1693 è già stata riportata in questo articolo e in questa nota, quindi, saranno invece sommariamente analizzate le modalità seguite per la ricostruzione delle città della Sicilia orientale.
Il Regno è un cadavere! Le circostanze correnti sono pessime; qui si temono tre pericoli grandissimi: il primo che è la peste per la puzza di tanti cadaveri, il secondo si è quello della fame, perché non c’è più chi coltivare li campi ed il bestiame rovina li seminati, il terzo è quello della guerra, essendo le porte principali del Regno aperte, senza speranza di poterle guardare e chiudere
In queste parole di un testimone dell’evento sono racchiuse le stesse preoccupazioni che spinsero il viceré duca di Uzeda (la Sicilia, in quel tempo, era parte del Regno di Spagna) a nominare un vicario generale – quello che oggi definiremmo un alto commissario – al quale furono demandati poteri pressoché assoluti affinché si provvedesse sia alla gestione dell’emergenza che all’avvio della ricostruzione. L’uomo scelto dal viceré fu proprio il già citato Giuseppe Lanza, un militare che si dimostrò capace di restituire un minimo di fiducia alle decine di migliaia di sfollati e di definire le linee guida per una profonda revisione degli spazi urbani della Sicilia orientale, proiettandola verso l’età moderna.
Una storia completa della ricostruzione delle città distrutte dal terremoto del 1693 occuperebbe interi volumi. Ogni città, ogni paese, ogni villaggio ebbe una specifica storia e quindi quello che si può fare è cercare di individuare quali furono le chiavi che resero la ricostruzione dell’evento del 1693 una autentica leggenda.
Il primo elemento da tenere presente in questa analisi è quello relativo all’appartenenza delle varie città e casali. Sul finire del XVII secolo, infatti, era netta la divisione tra città feudali e città demaniali, ovvero tra città facenti parte dello Stato, cioè demaniali, e città amministrate da nobili feudatari. La sfida di Lanza era resa più complessa da questo aspetto perché a lui toccò:
1. Provvedere all’emanazione di “leggi speciali” che sospendessero antiche consuetudini e leggi nel campo della proprietà degli immobili e dei terreni;
2. Trovare le soluzioni per il ripristino della sicurezza delle città dal punto di vista militare, senza spendere troppo;
3. far sì che la ricostruzione rappresentasse un’occasione per una revisione totale degli spazi urbani sia alla luce della necessità di proteggere la cittadinanza da futuri eventi sismici che in relazione all’evidenza che città arroccate per ragioni di difesa dal nemico erano, in quel tempo, ormai obsolete e che la modernità esigeva un diverso approccio, più aperto e capace di produrre sviluppo economico.
La possibilità di agire su una “tabula rasa” è stata sempre un’occasione ghiotta per urbanisti e architetti di ogni tempo per riproporre “città ideali”, ma è certo che la ricostruzione post 1693 rappresenta una eccezione a queste visioni perché essa fu invece gestita da artigiani molto pragmatici ai quali si chiedeva di fare tanto, in poco tempo e con poca spesa.
Se c’è un merito, in questo senso, che va riconosciuto a Lanza è dunque quello di avere avviato un circolo virtuoso nel quale si accese una sorta di competizione tra città a chi proponeva le soluzioni più belle e innovative. A far da sfondo a questa competizione è la prevalenza dominante del barocco come stile architettonico, in una delle sue manifestazioni più originali e spettacolari: è il caso, infatti, di chiamarlo tardo barocco siciliano (Fig. 5).
Anche la Chiesa si inserì in questa sana competizione e la possibilità di godere di importanti benefici fiscali per dieci anni e di incamerare beni rimasti senza eredi, fornirono una formidabile leva finanziaria che pagò le maestose cattedrali, le chiese, i conventi e i monasteri di tutta la Sicilia orientale.
Nei regolamenti emanati dalle assemblee cittadine si leggono anche novità importanti, frutto della drammatica esperienza e che, purtroppo, nell’evolversi urbanistico di città come Catania, Siracusa e Ragusa sono state poi dimenticate. Nel caso di Catania, ad esempio, si stabilì che nel nuovo disegno della città essa fosse dotata di
…belle strade a retta linea intersecate da altre secondo l’arte e conforme alle regole dell’architettura, con condizione però che fossero larghe e grandi avendosi esperimentato nel successo terremoto che il macello delle persone fu effettuato nella strettezza delle strade che cadendovi dell’una e l’altra parte le sommità dei palazzi racchiudevano il passo ai passeggeri e l’aprivano il sentiero della morte… (Delibera del Senato catanese del 28 giugno 1694).
Queste indicazioni scaturirono dalla triste esperienza di Catania, dove i crolli dei palazzi sulle stradine medievali avevano indotto il doppio danno della morte degli abitanti, impediti nella fuga, e l’impossibilità di tornare a vegliare i beni rimasti incustoditi e poi diventati preda degli sciacalli più arditi, provenienti dai “casali” ovvero dai paesi del circondario etneo. A queste norme si aggiunsero anche delle draconiane regole che obbligavano chi non avesse il denaro per ricostruire la propria casa, a venderla al vicino che invece ne aveva la possibilità, favorendo la realizzazione di palazzi sfarzosi e di dimensioni inusitate prima del terremoto.
L’architettura delle nuove città fu ispirata sempre al già citato pragmatismo, ma la necessità di sfoggiare ricchezza e potere attraverso l’architettura dei propri palazzi, unitamente alle deroghe legislative sui diritti di proprietà, alle esenzioni fiscali, alla disponibilità economica, frutto del lavoro del territorio, ed alla possibilità di attingere ad un gruppo di architetti e artigiani di grandi capacità tecniche furono, dunque, le chiavi del successo che oggi tutti ammiriamo nelle città barocche del Val di Noto.
Troppo lungo e certamente non esaustivo sarebbe l’elenco delle meraviglie barocche della ricostruzione post 1693, ci limitiamo quindi a ricordare la magnificenza della pianta urbana esagonale di Grammichele e le geniali soluzioni capaci di contemperare armonia estetica e resistenza allo scuotimento sismico operate dagli architetti che agirono in quel periodo (Italia, Gagliardi e Vaccarini, tra gli altri, Fig. 6), che seppero sfruttare l’osservazione empirica del fatto che superfici curve erano in grado di assorbire meglio le spinte sismiche e, che oggi possiamo osservare in molte delle facciate delle principali chiese della Sicilia sudorientale, perfettamente inserite nei canoni estetici del barocco, tanto da far meritare a questo pezzo della Sicilia il riconoscimento dall’UNESCO quale Patrimonio dell’Umanità.
A cura di Mario Mattia, INGV – Osservatorio Etneo.
Bibliografia
Locati M., Camassi R., Rovida A., Ercolani E., Bernardini F., Castelli V., Caracciolo C.H., Tertulliani A., Rossi A., Azzaro R., D’Amico S., Antonucci A. (2022). Database Macrosismico Italiano (DBMI15), versione 4.0 [Data set]. Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV). https://doi.org/10.13127/dbmi/dbmi15.4
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