luci e ombre della Centrale del Mercure

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A Laino Borgo, 1.700 abitanti al confine con la Basilicata, oggi si arriva da un tratto di autostrada inaugurato a luglio 2017 dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi. A dominarlo è il viadotto Italia, oggetto anch’esso di un restyling costato la vita, poco più di un anno prima, a un ragazzo di 25 anni, Adrian Miholca, precipitato nel vuoto mentre lavorava a bordo di una ruspa. Un’altezza di 260 metri che a lungo, fino al 2004, ha fatto di questo il ponte autostradale più alto d’Europa.

Un record ancora insuperato quando tutta questa storia è iniziata, in quest’angolo di Pollino famoso per il fiume Lao e le attività turistiche e sportive che attorno vi sono fiorite. Uno scorcio “curioso” lo offre il centro di Laino: un cartello, “Ponte dei lainesi caduti sul lavoro”, sul cui sfondo si staglia proprio il viadotto Italia. Ma il ponte a cui si riferisce è in realtà un pezzettino di strada a cavallo del Lao, tra la piazza intitolata al beato “di casa” Pietro Paolo Navarro e il palazzo del Comune.

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Un borgo. Così si usa chiamarli adesso i cari vecchi paesi, e in questo che la parola la porta nel nome si aggira lo stesso spettro che spaventa un po’ ovunque: lo spopolamento. Da qui, un posto come tanti dove gli abitanti diventano “anime” e quelle anime rimangono sempre più sole, molti se ne sono andati via. È il triste destino che accomuna i piccoli centri che muoiono lentamente per mancanza di lavoro e servizi. Muoiono, eppure continuano a vivere. Di una natura che sa offrire spettacoli mozzafiato e prodotti della terra che sanno di tutto il buono che c’è.

Non si direbbe, ma proprio questo paesino è il cuore di una battaglia che si trascina da più di vent’anni, tra polemiche, proteste, decreti autorizzativi, ricorsi e controricorsi. Una tempesta che da un po’ sembrava sopita e che invece, oggi, riesplode più violenta di prima. Il motivo sta in quell’ospite – indesiderato per alcuni, ben accetto per altri, di sicuro uno di quelli che non passano inosservati: un impianto a biomasse piantato nel cuore del Parco del Pollino, polmone verde della regione e patrimonio Unesco.

Corsi e ricorsi

Costruito negli anni Sessanta, l’impianto per la produzione di energia elettrica ha portato occupazione ma, inevitabilmente, anche inquinamento. Prima alimentato a lignite, poi a olio combustibile, nel 1997 era stato completamente dismesso. La sua storia sembrava dovesse finire lì e invece così non è stato. Nel 2000 Enel propone di convertire la centrale a biomasse, operazione che viene completata nel 2005 con un investimento di circa 60 milioni di euro per una potenza di 41 megawatt. La struttura che con la sua ciminiera bianca e rossa domina la località Pianette sarebbe pronta a rimettersi in moto ma si blocca un attimo dopo, incagliata in un groviglio di provvedimenti e ricorsi che hanno trascinato l’iter autorizzativo di calendario in calendario e dato via a un balletto di false partenze e stop. Le attività della centrale partono infine nel 2016, dopo un lungo contenzioso, e passano, nel 2019, dalla gestione di Enel a quella di Sorgenia.

Avanti, indietro e poi ancora avanti. Perché qualcuno la centrale non l’ha mai voluta e qualcun altro invece l’ha voluta a tutti i costi. In materia di conflitti ambientali, per il territorio questa è la madre di tutte le battaglie.

Il sì del Comune di Laino Borgo e la perizia

L’accordo tra il colosso dell’energia e il Comune di Laino Borgo, allora guidato dal sindaco Giuseppe Caterini, viene sottoscritto il 7 settembre 2009. E a leggere il testo le garanzie, tanto a livello ambientale quanto occupazionale, ci sono tutte o quasi. Per esempio, c’è scritto che Enel si sarebbe impegnata ad alimentare la centrale «esclusivamente con biomasse vergini certificate direttamente provenienti da attività di gestione forestale sostenibili» e «a privilegiare l’assunzione di personale locale con le qualifiche professionali richieste». Ma, soprattutto, si prevedeva la costituzione di un comitato tecnico-scientifico composto di «accademici di alta e riconosciuta professionalità e competenza» che si sarebbe dovuto esprimere «con perizia giurata pro-veritate» in merito «alla compatibilità territoriale dell’impianto ed alla tutela della salute e dell’ambiente».

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Comitato che viene costituito e che due anni dopo dà il suo parere. Le tre perizie portano le firme di docenti universitari provenienti dagli atenei di Ferrara, Pavia e Catania, che rassicurano sui valori delle emissioni: «Rientrano entro quello che il recente dlgs 155/010 definisce “livello critico”, cioè “il livello fissato in base alle conoscenze scientifiche oltre il quale possono sussistere effetti negativi diretti su recettori quali alberi, le altre piante o gli ecosistemi naturali esclusi gli esseri umani”». Per l’uomo, spiegano i professori, «sono previsti limiti ancora più restrittivi dettati, nelle linee più generali, dall’Oms» e «tutti i dati prodotti per calcolo, confrontati con i “valori limite”, previsti dalla vigente legislazione e dall’Oms risultano largamente al di sotto del limite fiduciale inferiore». Si parla di dati prodotti per calcolo, dunque non di rilevazioni che sarebbe stato impossibile fare su un impianto fermo.

In 4mila per dire no: «La centrale uccide il Parco»

Il Comune si fida, e in cambio c’è anche un ritorno economico che l’ente si impegna a devolvere alla comunità in termini di miglioramento dei servizi e taglio delle tasse. Se questo sia o meno avvenuto non è dato sapere. In ogni caso, sull’altro lato della medaglia si agita l’ombra dell’inquinamento e dei suoi possibili effetti sulla salute. Un’ombra che mette in moto diverse manifestazioni contro la riapertura della centrale. Il 5 settembre 2009 in strada scendono quattromila persone: cittadini, rappresentanti delle amministrazioni comunali, membri di associazioni e comitati, esponenti politici e sindacali. Sullo striscione in cima al corteo si legge “La centrale uccide il Parco”.

Sorge un comitato “Pro Mercure” al quale si contrappone, tra gli altri, il forum “Stefano Gioia”. In mezzo, nove amministrazioni comunali spalmate tra Calabria e Basilicata divise tra favorevoli e contrarie all’impianto. Inizia una guerra a colpi di ricorsi, di autorizzazioni rilasciate e poi annullate fino a quella decisiva del 2015. La centrale entra così in funzione nel 2016. Nel 2014 intanto c’era stata la sottoscrizione dell’accordo di compensazione per risarcire gli enti che avrebbero subito l’impatto delle attività della centrale.

Follia ambientalista o lucida analisi?

«Un Parco nazionale deve fare il Parco nazionale. Parliamo di un territorio che è Zona di protezione speciale dell’Unione europea e sito Unesco: qualcuno spieghi come si fa a coniugare tutto ciò con l’idea di industrializzazione», tuonava all’epoca della guerra dei ricorsi (e non ha mai smesso) Ferdinando Laghi in qualità di portavoce del forum “Stefano Gioia”. Oggi è consigliere regionale e autore della contestatissima norma che porta il suo nome, l’emendamento inserito nella legge Omnibus di recente approvata in Consiglio regionale che altro non fa che mettere nero su bianco quanto già deciso a luglio 2023 dalla Giunta Occhiuto con l’approvazione senza deroghe del Piano del Parco. È in quel documento che viene indicato il tanto avversato limite dei 10 megawatt termici di potenza dell’impianto che dunque, favorevoli o meno, non è frutto dell’iniziativa di un singolo rappresentante istituzionale.

«Follia ambientalista», l’ha definita qualcuno. Laghi, che è medico e prima di essere eletto tra gli scranni di Palazzo Campanella è stato presidente dell’Isde, l’Associazione internazionale dei medici per l’ambiente con sede a Ginevra, riconosciuta dall’Oms e dall’Onu (oggi è vicepresidente nazionale), dal canto suo non si sente un folle: «La biomassa produce il particolato ultrafine, un cancerogeno certificato dallo Iarc di Lione, e i metalli pesanti che gli alberi assorbono dall’ambiente», non si è mai stancato di ripetere. E poi c’è da considerare il viavai enorme di camion necessario per l’approvvigionamento, fonte di traffico oltre che di inquinamento. E tutto questo in un Parco nazionale.

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Ma, replicano dall’altra parte della barricata, gli studi dell’Osservatorio ambientale Valle del Mercure e dell’Arpacal sulla salubrità dell’aria (raccolti in un dossier presentato ieri alla Provincia di Cosenza) non rilevano criticità.

A completare la storia, prima che arrivasse la bufera di questi giorni, nell’ottobre 2022 si inserisce anche un’indagine della Dda che accende i riflettori sugli appetiti criminali che qui, come in altri impianti della regione, avrebbero avuto di che sfamarsi grazie proprio a biomasse che, certificate come vergini, tali non erano. Ma le vicende a cui l’inchiesta fa riferimento riguardano gli anni precedenti al passaggio di consegne con Sorgenia e questa, come direbbe qualcuno, è un’altra storia.



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