Intervista a Matteo Ward sul futuro sostenibile della moda

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Il Green Deal europeo è stato presentato dalla Commissione Europea con grave ritardo, era il dicembre 2019.  La più grande tragedia sul lavoro della storia moderna è il crollo del Rana Plaza a Savar in Bangladesh, che ospitava diverse fabbriche di abbigliamento di brand del nostro continente, era l’aprile del 2013. Morirono 1.100 lavoratori (e ci furono migliaia di feriti). 

Non solo abbiamo dovuto assistere ad una tragedia tale ma sono dovuti passare sei anni, affinché i governi e le istituzioni prendessero atto e coscienza e iniziassero a legiferare in questa direzione. 

In questi quattro anni, dall’introduzione del Piano Strategico per l’Economia Circolare del 2020, sono stati avviati vari cantieri normativi, ognuno con il suo target, i suoi incentivi o disincentivi, che in modo diverso ambiscono a progredire verso la transizione sostenibile e l’economia circolare. Una serie di politiche e misure per affrontare le sfide legate al cambiamento climatico, alla perdita di biodiversità, all’inquinamento e alla tutela dei lavoratori. Più concretamente l’insieme di iniziative della Commissione Europea sono finalizzate a rendere l’Europa il primo continente neutro dal punto di vista climatico entro il 2050.  

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La responsabilità del tessile sull’inquinamento globale 

Il settore tessile è considerato il secondo più inquinante al mondo, oggi è quindi protagonista di queste tematiche, con un posto a sedere in primissima fila. Nonostante la moda, il tessile, gli accessori e le scarpe rappresentino un canale di espressione fondamentale nella vita dell’essere umano e quello di coprirsi senz’altro un bisogno primario, le condizioni di degrado ambientale, sociale, culturale, di cui oggi siamo molto più consapevoli di ieri, non ci consentono di giustificare, come abbiamo fatto finora, questo modello. Al contrario ci obbligano ad attivarci in difesa di lavoratori, dei consumatori e della biodiversità. La legislazione europea è l’opportunità non solo per la transizione sostenibile ma per un cambio di mentalità, auspicabilmente, un cambio culturale in grado di ridefinire il nostro modello di sviluppo iper-consumista caratterizzato da obsolescenza programmata, verso un’economia più resiliente e sostenibile dove forse la crescita economica avrà la stessa importanza della crescita sociale e la tutela ambientale. E promettendo alle aziende che si muoveranno per tempo, in primis, di non essere escluse dal mercato e poter dialogare con le realtà con gli standard più elevati e, in secundis, di posizionarsi dal punto di vista sostenibile e quindi garantirsi un rientro, anche economico, nel lungo periodo. La legislazione europea rappresenta anche, l’accesso a un nuovo rapporto tra consumatori, produttori e ambiente. Le direttive europee relative al settore del tessile e alla moda sono: la proposta di Direttiva quadro rifiuti sulla Responsabilità Estesa del Produttore (EPR), il Regolamento Ecodesign, la proposta di Direttiva sulle Dichiarazioni Ambientali (Green Claims Directive), La Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD), la Direttiva Right to repair e la Direttiva Empowering consumers. 

Intervista a Matteo Ward 

Matteo Ward, attivista, è CEO e co-founder di WRÅD, design studio per lo sviluppo sostenibile e società benefit già vincitrice del Best of the Best Red Dot Product Design Award. È co-fondatore di Fashion Revolution Italia, docente universitario e public speaker, nonché co-autore e presentatore di JUNK, la docu serie co-prodotta da Will Media e Sky Italia. Ha ricevuto dalla FAO la nomina di Food Hero e ha appena pubblicato il suo primo libro FUORIMODA! edito da DeAgostini Mondadori. 

Matteo Ward. Photo Adriano Russo

In cosa ha consistito il tuo ruolo di Consulente Esperto della New European Bauhaus? 
Durante questi ultimi due anni ho seguito la curatela di tutti i contenuti legati alla moda e al tessile con ingredienti di sostenibilità, circolarità, utilizzo di materie prime innovative, biodegradabili o compostabili. I progetti, già allineati con le direzioni date dalla Ecodesign Directive, sono stati presentati ed esposti al più grande aggregatore al mondo, per la transizione sostenibile, di player dal mondo dell’arte, dell’industria e dell’alta tecnologia. La scelta di Ursula Von der Leyen, di utilizzare il termine Bauhaus, un’eredità così importante, che nei primi anni del XX secolo ha significato un modo nuovo di concepire arte e industria, tra innovazione ed evoluzione, è stato proprio quello che mi ha attratto fin dall’inizio. Con il cambio di commissione, i nostri ruoli sono al momento in stand by. 

In termini di transizione sostenibile dove noti maggiore cambiamento, in quali settori della moda?  
Negli ultimi anni i cambiamenti maggiori per la transizione sono stati fatti nella ricerca di materiali innovativi, tecnologie e processi innovativi per mitigare l’impatto ambientale della produzione. Quest’ultima è una variabile dell’equazione importante, ma non determinante. L’effetto che ha avuto nel mondo, a livello assoluto, è stato praticamente nullo. Non stupisce se si riflette sul fatto che che il modello di business si basa ancora su sovraconsumo, sovrapproduzione e oppressione delle persone. Così si cerca di curare i sintomi ma non si cura l’origine del male. Passi in avanti sono stati fatti piuttosto a livello culturale. Oggi uno dei motivi per il quale c’è una direttiva come la Corporate Sustainability Due Diligence in Commissione Europea è grazie a Orsola De Castro e Carry Somers, fondatrici di Fashion Revolution, che armate dell’hashtag Who Made My Clothes? e del dolore della tragedia del crollo di Rana Plaza, hanno cambiato il mondo, portando le parole trasparenza e tracciabilità nella strategia aziendale e di conseguenza sulle scrivanie dei politici.  

Intervista a Matteo Ward, Still Frame da Junk, Armadi Pieni, Episodio 5, India
Intervista a Matteo Ward, Still Frame da Junk, Armadi Pieni, Episodio 5, India

Quali strumenti culturali sono stati più efficaci nelle tue esperienze lavorative dal 2017 a oggi per raggiungere la sensibilità del consumatore?  
Oltre alla formazione che da sola non genera il cambiamento o almeno non alla velocità necessaria per raggiungere gli obiettivi del 2030 che, a questo punto, sono anche utopistici, noi agiamo su tre livelli. È necessaria un’attività di lobby, di influenza politica su chi ha il potere di determinare l’ecosistema legislativo entro il quale le aziende di moda operano, la coercizione informativa è l’azione più veloce e immediata per generare cambiamento comportamentale. La seconda area di impatto è quella di sensibilizzazione interna alle aziende, coinvolgendo amministratori delegati, manager e tutta la forza lavoro, posizionando la sostenibilità al centro della strategia di sviluppo aziendale. Tutto ciò chiaramente mette in discussione lo status quo e ben venga, visto che non ha dato buoni risultati. In questo modo analizzando la catena di produzione si va in fondo al problema cercandone le radici e trovando le soluzioni. La terza area di intervento è la sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Abbiamo bisogno di persone che alzino la voce, che protestino e dichiarino “Fuorimoda” (per citare il mio libro) le ingiustizie. E per convertire e attrarre i consumatori c’è bisogno di comunicazione che è diverso da informazione. Ho letto in una rivista di moda parigina di metà Settecento che se uno scienziato parla lo ascoltano 500 persone, ma quando parla un creativo può raggiungere fino a 4 milioni di persone.  

Di quali strumenti a livello nazionale avrebbero bisogno le aziende per essere supportate nei processi di assimilazione di queste direttive europee? 
Fondamentalmente di fondi, di piani di investimento, sussidi per rendere la transizione effettiva e fattibile. Fino ad oggi i brand hanno scaricato sulla filiera, la filiera è già schiacciata di suo, non ha marginalità e sta letteralmente e metaforicamente piangendo. È anche una questione di salute pubblica, stanno aumentando le spese pubbliche per dermatiti da contatto, per citarne una, che sono aumentate del 40%, mentre non sappiamo davvero l’impatto delle sostanze considerate cancerogene sul nostro organismo: non sappiamo quanto la nostra pelle ne assorbe, nell’incertezza è un rischio da evitare. Microplastiche, nanoplastiche, pfas, antimonio, cadmio, mercurio, piombo. Potendo scegliere andrebbero evitate le fibre sintetiche e gli abiti tinti, se non si possono evitare, l’importante è cercare di utilizzare questi capi a rotazione in modo che le sostanze nocive non si sedimentino, andrebbero evitati specialmente durante le attività sportive e durante la notte quando avviene la traspirazione ed è più facile per il nostro corpo assorbire elementi esterni. 

Pensando al tuo lungo viaggio intrapreso con Junk in Ghana, Cile, Indonesia, Bangladesh, India e Italia, lì dove le discariche e i rifiuti tessili mondiali hanno sede, quale potrebbe essere un modo per creare un nuovo rapporto e risarcire i danni subiti dalle comunità colpite, anche in vista della Corporate Sustainability Due Diligence Directive sui Rimedi e Risarcimenti?  
La risposta sta nella redistribuzione della ricchezza. Quello che ho visto in tutti questi Paesi, in modi diversi con esempi diversi, è sempre la solita storia tragica di come la povertà sistemica renda il processo ecologico inevitabile ed entri in un ciclo autocatalitico, degenerativo, dove più diventi povero più inquini, finché non sai più come uscirne. L’unico rimedio, agente correttivo, è l’immediata redistribuzione della ricchezza a livello globale per sanare questa disparità enorme, partendo dal pagare uno stipendio dignitoso alle persone che fanno i nostri vestiti e a catena, ora semplificando, questo dovrebbe determinare una serie di miglioramenti, mettendo in atto processi sani ed ecologici, dal seme che viene coltivato per estrarre la fibra tessile alla trasformazione infine dell’indumento in scarto. Oggi i Paesi menzionati possono ricevere i nostri scarti, al quale danno nuove vite e rappresentano una parte di economia, a patto che gli indumenti siano di qualità migliore in grado di essere rivisti e trasformati, mentre quello che sta arrivando nelle discariche di tutto il mondo sono oggetti di qualità sempre più scadente che è difficilissimo ricapitalizzare: quando un prodotto è progettato a ribasso, è quasi impossibile dargli nuova vita, è molto più facile che finisca in una spiaggia a Dakar.  

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Margherita Cuccia 

Libri consigliati:

Fuorimoda! Storie e proposte per restituire valore a ciò che indossiamo. Di Matteo Ward

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