«Il pacifismo non è un’utopia ingenua, è politica. Oggi le giovani generazioni possono insegnarci tanto»

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Processo, ideale, pratica, impegno: quella del pacifismo è una storia. Che sembra molto lontana da noi, nonostante i tempi che attraversiamo siano carichi di immani violenze, orrori ed ingiustizie. Ora che la guerra è tornata ad essere strumento legittimo della politica, che enormi risorse vengono bruciate in armamenti e un nuovo conflitto mondiale è sempre più alle porte, raccontare il movimento pacifista italiano significa restituire importanza e consapevolezza a una stagione che non è affatto conclusa, si è semplicemente evoluta.

Le guerre attualmente in corso nel mondo sono cinquantanove. È un momento buio, in cui la propaganda, la disinformazione, la sensazione di impotenza ci spingono ad abituarci a tutto, anche al peggio, silenziando il dissenso.

Eppure una luce esiste: è il portale aperto e accessibile a tutti, di Pace in Movimento che sta lì a ricordarci che senza memoria non c’è futuro. Realizzato dalle associazioni Arci , Sbilanciamoci e Un Ponte per , con il finanziamento dell’8 per mille dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, è dedicato a Tom Benetollo, che della lotta per la pace in Italia è stato testimone e animatore.

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Raccoglie un migliaio di materiali tra documenti, video, foto, libri, podcast e articoli strutturati in diverse sezioni. Due sono dedicate alla memoria e alle radici: la prima ripercorre la storia del pacifismo, la seconda ne indaga le origini più antiche, a partire dall’Ottocento e dai primi pensatori pacifisti. C’è poi una sezione attuale, che non è un archivio ma uno sguardo sul presente rispetto a quella che Papa Francesco ha definito la guerra mondiale a pezzi, per descrivere la frammentazione e la complessità dei conflitti armati nel mondo contemporaneo.

Al centro del portale, invece, si trovano sezioni che attraversano i decenni di storia del pacifismo italiano. Si parte dagli anni Ottanta, quando l’Europa era ancora divisa dal Muro di Berlino e la minaccia nucleare tra le due superpotenze era altissima. Fu il periodo in cui esplose un gigantesco movimento pacifista contro l’installazione degli euromissili in Europa e in Italia, in particolare a Comiso, e per un’Europa unita, libera dal dominio delle superpotenze.

Negli anni Novanta, il pacifismo italiano iniziò a guardare oltre i confini nazionali, concentrandosi sui conflitti in Medio Oriente, con un’attenzione costante alla Palestina. Fu il periodo della storica catena umana sotto le mura di Gerusalemme, la prima occasione in cui palestinesi e israeliani si diedero la mano in un’unica manifestazione. Parallelamente, il movimento si impegnò nelle guerre della ex Jugoslavia, con migliaia di volontari italiani che operarono nei campi profughi e nelle città assediate dei Balcani, unendo l’azione concreta a una forte mobilitazione contro la guerra, a favore dell’accoglienza di profughi e disertori.

Nel decennio 2000-2010 invece, il movimento pacifista si intrecciò con il movimento No Global, soprattutto dopo il G8 di Genova: il periodo in cui la lotta per la pace si legò a quella per i diritti e la giustizia globale. Questo percorso portò alla storica mobilitazione del 15 febbraio 2003 contro la guerra in Iraq: la più grande manifestazione pacifista mai realizzata, con 110 milioni di persone in piazza in tutto il mondo. A Roma si tenne il corteo più imponente, con 3 milioni di partecipanti, tanto che il New York Times definì il movimento pacifista la seconda potenza mondiale .

Gli anni tra il 2010 e il 2020 sono stati invece più complessi: la crisi economica ha spinto le società civili e le organizzazioni sociali a concentrarsi sempre più sulle emergenze interne, riducendo l’attenzione verso i conflitti internazionali. Tuttavia, anche in quegli anni il movimento per la pace ha continuato a operare.

Nel sito è presente anche una sezione chiamata Le storie, che raccoglie approfondimenti e testimonianze di protagonisti – noti e meno noti – del pacifismo. C’è poi uno spazio speciale dedicato a Tom Benetollo, storico presidente dell’Arci e figura centrale del movimento, scomparso prematuramente nel 2004, a soli 53 anni. Pace in Movimento è dedicato a lui, nel ventesimo anniversario della sua morte, per celebrare la storia collettiva che ha contribuito a costruire.

«Il pacifismo italiano è sempre stato un grande progetto condiviso – ci spiega la storica attivista Raffaella Bolini – capace di dimostrare che anche le persone comuni, senza potere o ruoli pubblici, unite possono cambiare il corso degli eventi».

Raffaella Bolini di Pace in Movimento

Un pacifismo che si è sempre orgogliosamente definito politico, perché ha sempre creduto che la società civile debba avere l’intelligenza necessaria per individuare i passi che servono a far cambiare le cose: «Un percorso di nonviolenza attiva, che non è mai stata la rinuncia al conflitto, ma la possibilità di agirlo con il massimo della partecipazione possibile, senza delegarlo ad avanguardie muscolari, maschie e coraggiose. Una storia collettiva e plurale, fatta da tanti e tante con principi, metodi, convinzioni diverse, ma che si sono sempre sentiti una grande comunità».

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Ed è stato l’insieme di percorsi e strumenti differenti, contro la guerra e per la pace, a fare la forza del pacifismo in Italia.

«Oggi viviamo uno dei periodi più drammatici della nostra storia. Per chi ha costruito Pace in Movimento questo è il momento più difficile. La guerra in Ucraina, il genocidio a Gaza, l’Europa che invece di spingere per il negoziato sceglie di inviare armi, il riarmo presentato come “volano dello sviluppo economico” e l’Unione Europea che nei suoi documenti ufficiali parla di preparare i cittadini alla guerra, delineano un panorama inquietante. Di fronte a tutto questo, abbiamo pensato che una narrazione del pacifismo fosse essenziale, soprattutto per le nuove generazioni».

Il pacifismo, quindi, non è un’utopia ingenua, né una resa passiva di fronte ai conflitti: «È, al contrario, una strategia di lotta, un metodo che consente di affrontare i conflitti senza riprodurre la violenza e la sopraffazione. Le pratiche non violente, dalla disobbedienza civile alle mobilitazioni di massa, permettono a chiunque – anche ai più fragili, ai più deboli, ai più paurosi – di partecipare attivamente al cambiamento. Questo rende il pacifismo un movimento inclusivo, capace di trasformare la società senza delegare la lotta a élite militanti o avanguardie aggressive».

Al contrario la guerra trasforma le persone, distrugge comunità, devasta l’ambiente: «Per questo il pacifismo non si limita a dire “no” – continua Bolini – ma propone un’alternativa concreta: costruire giustizia, sicurezza e diritti senza ricorrere alla violenza. Una visione che, negli anni, ha trovato spazio anche nel dibattito istituzionale, come dimostrano esperienze storiche come gli Accordi di Helsinki del 1975. In quell’occasione, nel pieno della Guerra Fredda e della contrapposizione tra USA e URSS, le principali potenze mondiali si sedettero allo stesso tavolo per discutere un nuovo concetto di sicurezza, non più basato sulla minaccia e sul confronto militare, ma sulla cooperazione e sulla reciproca garanzia di stabilità. Un’idea rivoluzionaria, portata avanti da leader come Willy Brandt, Enrico Berlinguer e Olof Palme, e che oggi appare completamente dimenticata».

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E non serve tornare molto indietro nel tempo per riconoscere che il principio di sicurezza comune e condivisa – che durante la parentesi pandemica sembrava essere stato riscoperto con il motto “nessuno si salva da solo” – sia stato completamente stravolto: «Oggi, di fronte alla guerra in Ucraina, la risposta dell’Occidente è stata il riarmo, l’escalation militare, la polarizzazione del conflitto, anziché il tentativo di costruire una via d’uscita negoziale. Allo stesso modo, di fronte agli attacchi su Gaza, l’inerzia e la complicità della comunità internazionale hanno permesso che una tragedia umanitaria si trasformasse in un genocidio sotto gli occhi di tutti. La prospettiva è ribaltata, attraversiamo un momento critico, forse il più cupo per chi ha fatto del pacifismo una battaglia centrale per la propria vita».

Tramandare. Consegnare questa storia comune alle nuove generazioni, con i suoi successi e le sue sconfitte, perché si tratta delle energie che milioni di piccole persone hanno impiegato per fare il mondo più giusto: «Ci auguriamo che giovani e giovanissimi possano perché possano trovare ispirazione e forza nelle lotte del passato per affrontare quelle del presente e del futuro. E il fatto che l’Italia sia ancora uno dei pochi paesi europei in cui i sondaggi mostrano una maggioranza contraria alla guerra e al riarmo, dimostra che questo lavoro ha ancora un senso. Dopotutto Pace in Movimento nasce con questo obiettivo: restituire memoria alle nuove generazioni. Le radici, dopotutto, non servono a guardare indietro, ma a crescere più solidi e consapevoli. Chi scende in campo in questo momento lo fa con le proprie idee e identità, ma conoscere questo movimento può dare nuova forza e consapevolezza. Come per le piante, le radici sostengono, permettono di crescere meglio e con più solidità».

Infatti la seconda fase del progetto non si limiterà solo ad arricchire il sito, ma lo farà in modo partecipativo: «Metteremo a disposizione punti di contatto, una mail e altri strumenti affinché chiunque possieda foto, video, articoli, volantini, manifesti o altro materiale sulla storia del pacifismo possa condividerlo, contribuendo così a salvare il ricordo e a evitarne la dispersione. L’obiettivo di quest’anno è ambizioso: raddoppiare il numero di documenti presenti e arrivare a duemila materiali. Parallelamente – spiega ancora Raffaella Bolini – stiamo organizzando iniziative di dialogo intergenerazionale. Abbiamo già iniziato a portare la nostra piattaforma nelle scuole, nelle università, nei circoli e nelle associazioni, non solo per farla conoscere in modo interattivo, ma anche per stimolare una riflessione collettiva. Il confronto con le nuove generazioni è per noi fondamentale, perché il pacifismo stesso si evolve nel tempo. Negli anni Ottanta, quando ho iniziato a impegnarmi, abbiamo innovato molto rispetto alle modalità di partecipazione politica delle generazioni precedenti. Può sembrare banale sottolinearlo, ma ricordo che durante le assemblee non ci sedevamo sulle sedie, ma in cerchio, per creare un confronto più orizzontale, coinvolgendo anche i grandi leader politici dell’epoca».

Questo stesso spirito di innovazione nelle mobilitazioni sopravvive nella contemporaneità, in modo particolare tra i manifestanti che si schierano al fianco del popolo palestinese, continuando a chiedere la fine dei bombardamenti israeliani su Gaza: «La generazione attuale non solo denuncia il genocidio in corso, ma introduce nel dibattito concetti come colonialismo, suprematismo bianco e razzismo sistemico. Nell’immaginario collettivo il conflitto israelo-palestinese è stato sempre analizzato come uno scontro tra un occupante e un occupato, noi all’epoca scegliemmo di lavorare per il dialogo tra le parti e di schierarci in difesa dei diritti dei palestinesi, fino a praticare l’interposizione non violenta di fronte ai carri armati israeliani. Ma adesso i giovani vanno oltre: leggono questa occupazione come un fenomeno che riguarda l’intero Occidente, tracciando un continuum con movimenti come quello di Black Lives Matter. Per questo è fondamentale creare spazi di confronto tra vecchie e nuove generazioni, non perché la prima debba insegnare qualcosa alla seconda – anzi, è evidente che oggi abbiamo molto da imparare – ma per evitare cesure e costruire un dibattito che le metta in comunicazione. Il nostro compito è offrire strumenti: poi saranno i giovani a decidere come usarli, anche criticandoli radicalmente, se necessario. L’importante è che il dialogo resti aperto e che il pacifismo continui a trasformarsi, restando un mezzo di resistenza e cambiamento».

Immagine in copertina, ANSA – Marcia per la Pace a Roma

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