L’industria Europea dell’Automotive si è suicidata

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La crisi dell’auto europea è la cronaca di una morte annunciata. Anzi, di un suicidio. Un accanimento suicidiario, più che terapeutico, dato che il paziente (o la vittima), il settore automotive, implora le cure giuste – la sospensione delle multe UE; la messa in discussione del bando per il motore endotermico al 2035 e il via libera a ripiegare su e-fuel e biocarburanti -, ma il dottore, cioè l’UE, continua a fare orecchie da mercante. Non tutta la UE o, meglio, la Commissione, dato che molti commissari sarebbero d’accordo con Italia e Germania, che puntano a un ammorbidimento del rigore verde. Ma il manuale Cencelli comunitario ha dato il pallino alla socialista spagnola Ribera, che rilancia sui parametri draconiani approvati nella scorsa legislatura. Una posizione che rischia di essere fatale anche per le sinistre UE, mentre Elly Schlein va a Pomigliano, dopo che sono stati proprio gli Stati fordisti della “rust belt” a decretare la vittoria di Trump negli Stati Uniti. Ma la sinistra operaista e pragamatica di un tempo è stata rimpiazzata dalla New Left dell’ambientalismo ideologico. La Ribera non guarda alle condizioni materiali, non è materialista storica, è dominata dalle idee (apparentemente) buone che lastricano la strada che porta all’inferno, dove si bruciano i posti di lavoro di quella che era proprio una constituency progressista. Già, perché i giusti obiettivi verdi dovrebbero bilanciarsi con la sostenibilità economica e sociale. Nonchè con il principio (richiamato anche nel Piano Draghi) della neutralità tecnologica. Cosa che non avviene: ed ecco che alcune componenti europee sono come la scimmia folle che sega il ramo dove si siede. E non ascoltano i cittadini. 

In estrema sintesi: i consumatori non stanno credendo alle auto elettriche. Perché non ascoltarli? Certo, il mercato va indirizzato con le regole giuste. Ma non è che il consumatore possa essere completamente ignorato dal decisore. 

In generale, i consumatori non credono a (questo) elettrico. Come ho scritto con Alessio Postiglione ne “L’ambientalismo possibile” (Historica Edizioni/Giubilei Regnani, 2023), sia la produzione di energia da fonti rinnovabili, sia quella di auto elettriche stanno generando tensioni sulla domanda e sui prezzi di minerali critici quali rame, litio, nickel, manganese, cobalto, zinco e terre rare. Le batterie delle auto elettriche, infatti, hanno bisogno delle terre rare, e questo comporta problemi ambientali e geopolitici. In questo modo salgono i costi degli input produttivi delle auto, mentre crolla la produzione, che è diminuita recentemente di 232 miliardi di euro, pari al 39% in meno: e precisamente di 121,3 miliardi di euro in Germania, 19,9 miliardi in Francia, 10,5 miliardi in Spagna e 5,9 miliardi in Italia. L’altro paradosso è che sono le democrature come la Cina a controllare le terre rare, di conseguenza la UE, per ridurre la dipendenza dalla Russia, si trova ad aumentare i suoi legami con Pechino. 

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Oggi la Cina detiene non solo il 35% delle riserve, ma soprattutto il 60% dell’output degli ossidi di terre rare. Così, grazie al suo capitalismo di Stato, può controllare i prezzi di questi minerali, la cui importanza fa aumentare anche i prezzi delle energie fossili. Un intreccio gordiano. Non a caso, alla fine degli anni Novanta, l’allora presidente Deng Xiaoping aveva dichiarato: «Il Medio Oriente ha il petrolio, noi abbiamo le terre rare». Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (IEA), d’altronde, in uno scenario di sviluppo sostenibile, la domanda di terre rare potrebbe crescere di sette volte nei prossimi vent’anni. Con conseguenze geopolitiche incredibili. Nei Paesi alle prese con l’instabilità politica, dove la governance del settore minerario è debole, l’estrazione di questi minerali può essere collegata a violenze, conflitti e violazioni dei diritti umani. Lo stesso Word Economic Forum, d’altronde, attraverso un report di Douglas Bloom, esemplificamente chiamato “Il segreto sporco delle auto elettriche”, ha pubblicamente denunciato non solo il lavoro minorile associato alla fabbricazione delle batterie elettriche, ma gli stessi costi ambientali: «La maggior parte della produzione di batterie agli ioni di litio avviene in Cina, Corea del Sud e Giappone, dove la produzione di elettricità continua a dipendere dal carbone e da altri combustibili fossili». Insomma, con questo elettrico, facciamo un favore alla Cina, che va a carbone ed è un grande inquinatore.

Relativamente all’automotive in generale, inoltre, uno dei principi (di sinistra) cardini del fordismo – l’operaio che può comprarsi la Ford e dunque alimentare la domanda – è stato superato dalla “gentrificazione dell’utilitaria”. L’auto media costa sempre di più. E’ stata una politica lungimirante? A fronte del crollo – la produzione di autoveicoli nell’Unione Europea nel 2023 si è fermata a 12 milioni di unità, la metà della capacità produttiva teorica del Continente -, si direbbe di no. Infine, la stessa Commissione Europea ha stimato che, per raggiungere i nuovi obiettivi climatici, sarebbero necessari 300 miliardi di euro di investimenti “verdi” all’anno nell’arco di un decennio. Mentre a tutt’oggi i piani di intervento finanziario che ricadono nell’ambito del Green Deal e del Next Generation EU ne annoverano complessivamente solo 140. Di fronte alla richiesta di scorporare alcune spese dal debito (si è parlato di green, ma anche di spese militari) e di emettere eurobond, il vicepresidente della Commissione Dombrovskis – il tutore dell’austerità -, sta ribadendo ogni giorno il suo fragoroso no. Come fare, dunque, questa (draconiana) transizione verde senza denari pubblici non è dato sapere. L’esito infausto di questa strategia è allora quello della “decrescita”, di cui, d’altronde, sono sostenitori alcuni teorici dell’ambientalismo più radicale. Ne siamo consapevoli? 



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