RIFORMA PENSIONI/ I dubbi sul “blocco” dell’anzianità contributiva di Brambilla

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Il “qui pro quo” determinato dall’uscita strumentale della Cgil riguardante i requisiti di pensionamento apocrifi individuati nelle simulazioni dell’Inps (che hanno provocato la solita tempesta in un bicchier d’acqua) ha aperto un dibattito importante finora non preso in considerazione. Che cosa succede d’ora in avanti dal momento che è venuto a scadenza, dal 1° gennaio di quest’anno, il blocco a 42 anni e 10 mesi (un anno in meno per le donne) del pensionamento anticipato ordinario ed è ripartito l’adeguamento automatico all’incremento dell’attesa di vita?



Sappiamo che nel 2025 e nel 2026 non vi è stata variazione e che pertanto non subiscono modifiche i requisiti, ma che tutte le previsioni attribuiscono un incremento di tre mesi (che poi è il massimo consentito) a partire dal 2027. La questione si pone per coloro a cui si applica il c.d. sistema misto, perché quello contributivo ha una logica diversa, già definita dall’ultima Legge di bilancio. Ma la gran parte delle pensioni dei prossimi anni sarà liquidata appunto con il calcolo ora vigente, in cui il retributivo ha un peso consistente.

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Tabella 1 – Quota delle componenti retributiva e contributiva nell’ambito delle pensioni liquidate con Quota 100 (anni di anzianità di contribuzione)

E qui si inserisce una preoccupazione che ha una certa consistenza. Fino a quali livelli di età e di contribuzione può arrivare un sistema pensionistico che abbia al proprio interno un meccanismo di adeguamento automatico dei relativi requisiti? È opportuno, allora, fissare dei requisiti stabili, per evitare che vi sia sempre una rincorsa tra l’età e l’anzianità maturate in via di fatto e quelle assunte dalla legge? All’interno di questa domanda ce n’è implicita un’altra: i 42 anni e 10 mesi e un anno in meno per le donne possono rappresentare un equo approdo finale o è il caso di procedere oltre con gli aggiornamenti automatici a seguito di periodiche verifiche delle variazioni dell’attesa di vita?



Il XII Rapporto di Itinerari previdenziali, presentato nei giorni scorsi, fornisce una risposta per quanto riguarda l’esigenza di conservare un equilibrio del sistema pensionistico. “Un equilibrio sottile, dunque, che potrà essere mantenuto nel tempo solo a patto di saper compiere, in un Paese che invecchia, scelte oculate in materia di occupazione, anticipi ed età di pensionamento”. “Per prima cosa – si legge quindi nel Rapporto – occorrerà un’applicazione puntuale dei due stabilizzatori automatici già previsti dal nostro sistema, vale a dire adeguamento dei requisiti di età anagrafica e dei coefficienti di trasformazione all’aspettativa di vita, limitando da una parte le numerose forme di anticipazione oggi previste dall’ordinamento, e, dall’altra, premiando in termini di flessibilità i nastri contributivi più lunghi”. “Ribadita pertanto anche la necessità di bloccare l’anzianità contributiva agli attuali 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 e 10 per le donne, con riduzioni per donne madri e precoci, e di prevedere un superbonus per quanti scelgono di restare al lavoro fino ai 71 anni di età”.

Sembra essere questa la linea proposta, dopo le polemiche dei giorni scorsi, anche dal ministro Giancarlo Giorgetti. Chi scrive, pur confermando grande stima per il ministro e per Alberto Brambilla, ha molti dubbi nei confronti di una soluzione siffatta, per diversi motivi.

Come dimostrano i dati gli attuali limiti per il pensionamento anticipato sono troppo bassi per le generazioni baby boomers che continueranno ad andare in quiescenza nei prossimi anni. Le statistiche evidenziano che – nonostante il requisito contributivo elevato – la maggior parte dei pensionati di vecchiaia anticipata degli ultimi anni hanno preferito avvalersi di questa via d’uscita rispetto a quella garantita dalle quote, se possibile anche di quota 100. Il fatto che non fosse previsto un requisito anagrafico (62 anni in quota 100) ha consentito a molti lavoratori (il maschile ha un significato specifico) di arrivare all’appuntamento con la pensione a una età inferiore (nel 2024 l’età media effettiva alla decorrenza del trattamento anticipato è risultata pari a 61,7 anni).

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C’è poi un altro aspetto che Itinerari previdenziali coglie nel contesto di un dibattito che sembra averlo dimenticato: esiste un meccanismo di adeguamento automatico dei coefficienti di trasformazione inversamente proporzionale all’incremento dell’attesa di vita che non ha mai smesso di essere operante anche negli anni del blocco dal 2019 a tutto il 2024. Il meccanismo è di per sé un incentivo a rimanere al lavoro senza dover ricorrere al superbonus per restare fino a 71 anni. Vi è poi un altro aspetto che caratterizza l’analisi di Itinerari previdenziali. Secondo Brambilla, occorre evitare gli allarmismi in chiave demografica: “Volendo trarre qualche conclusione, malgrado i molti ‘catastrofisti’ che parlano di un sistema insostenibile all’interno dell’attuale quadro demografico, i conti della nostra previdenza reggono, e dovrebbero farlo anche tra 10-15 anni, nel 2035/40, quando la maggior parte dei baby boomer nati dal Dopoguerra al 1980 – coorti molto significative in termini pensionistici, in termini previdenziali assai significative data la loro numerosità – si saranno pensionate”. Molto diverso è il ragionamento compiuto dai demografi, non solo per quanto riguarda gli effetti della denatalità/invecchiamento sui sistemi di welfare, ma anche sul mercato del lavoro.

Nel recente Rapporto del Cnel sulla demografia e il mercato del lavoro, il coordinatore Alessandro Rosina ha scritto: “L’indicatore che misura il rapporto tra anziani e popolazione in età attiva (indice di dipendenza degli anziani) è uno di quelli guardati con più attenzione dalle economie avanzate. Se tale rapporto aumenta significa che nella bilancia demografica il peso si sposta dal piatto dell’età in cui si fa crescere l’economia (e si fa funzionare il sistema di welfare) a quello dell’età in cui maggiormente si assorbono risorse pubbliche per assistenza sanitaria e pensioni. Se fino agli anni più recenti ad alimentare la crescita dell’indice di dipendenza degli anziani è stato soprattutto l’aumento del numeratore (le persone di 65 anni e oltre), nei prossimi anni e decenni alla sua spinta verso l’alto contribuirà sempre più la diminuzione del denominatore. La consistenza della popolazione in età lavorativa nel mondo occidentale è stata favorita dalle generazioni nate fino all’epoca del baby boom, che ora si stanno spostando in età anziana”.

“I dati ci dicono – prosegue Rosina – che il rapporto tra over 65 e popolazione tra i 20 e i 64 anni su scala mondiale è salito da valori attorno al 10% nel 1960 al dato attuale superiore al 15%, con la prospettiva di arrivare oltre il 28% nel 2050 secondo lo scenario centrale delle Nazioni Unite (United Nations, 2024). Relativamente all’Unione europea, il valore di tale indicatore da meno del 30% del 2010 è previsto salire progressivamente fino a raddoppiare all’orizzonte del 2070, con la parte più accentuata della crescita concentrata entro i prossimi due decenni. L’Ue-27 deve prepararsi per uno scenario in cui il rapporto tra over 65 e classe 20-64 sarà superiore al 50% nel 2045”. In sostanza tra vent’anni. Il tasso di dipendenza degli anziani è già attualmente oltre il 40% per l’Italia ed è previsto da Eurostat rimanere sopra la media europea assestandosi vicino al 66% nel 2070 (rapporto di 1 a 1,5).

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