IL DECLINO SI PUÒ FERMARE

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Di Angelo Panebianco

Sindrome del declino. Non sembra che molti di quelli che hanno dichiarato di condividere le tesi espresse da Mario Draghi nel suo rapporto su Il futuro della competitività europea, lo abbiano davvero letto o, se lo hanno fatto, che siano disposti a seguirne le indicazioni. In Europa ci piace tanto preoccuparci di Elon Musk, l’uomo nero, il nuovo babau. Ma non sembriamo disposti a porci la domanda: perché in Europa non abbiamo dei Musk? Perché in Europa non nascono corporations di dimensioni e con i capitali necessari per sfidare i grandi dominatori delle piattaforme digitali? Perché la ricerca più avanzata nel campo dell’intelligenza artificiale vede come protagoniste esclusivamente corporations statunitensi e cinesi? Perché l’europa, nei settori di punta ove si giocano le grandi sfide economiche, sa produrre «regole» (norme) ma non innovazione?
Osserva Draghi nel succitato rapporto: «Alla base della posizione di debolezza dell’europa nel campo delle tecnologie digitali c’è una struttura industriale statica che produce un circolo vizioso di bassi investimenti e bassa innovazione». Da economista attento alle istituzioni Draghi individua un insieme di cause a cominciare dalle gravi imperfezioni del mercato unico europeo: «La frammentazione del mercato unico impedisce alle imprese innovative che raggiungono la fase della crescita di fare il salto di scala nell’ue, il che a sua volta riduce la domanda di investimenti».
E ancora: «La mancanza di un vero mercato unico impedisce (…) a un numero sufficiente di aziende nell’economia in generale di raggiungere dimensioni sufficienti per accelerare l’adozione di tecnologie avanzate». Lasciando discutere agli economisti le cause economiche dei mali denunciati da Draghi, si può osservare che esistono anche altri potenti ostacoli, alcuni dei quali (forse quelli veramente insormontabili) hanno a che fare con mentalità e pregiudizi radicati.
Certamente, la frammentazione del mercato unico, con le conseguenze indicate da Draghi, dipende, in primo luogo, dalle resistenze degli Stati nazionali e delle rispettive lobbies. Ma c’è di più. C’è la preoccupazione, forse condivisa da larga parte dell’opinione pubblica europea, secondo cui se si affermassero in Europa imprese di grandi dimensioni e capitali nei settori di punta dell’economia digitale, queste poi potrebbero condizionare la politica e vincolarla. I più pensano: meglio non rischiare di ritrovarsi in casa entità troppo ingombranti e potenti. Anche a costo di spingere l’europa verso il declino, negarle la possibilità di avere un ruolo nell’economia del futuro.
Ha certamente ragione Antonio Polito (Corriere del 23 gennaio) quando osserva che la rivoluzione tecnologica in corso può favorire esiti autoritari perché consente la concentrazione di risorse cruciali in poche mani. Però è anche vero che all’autoritarismo ci si arriva pure imboccando la strada del declino. Un’europa tagliata fuori dalle nuove frontiere dell’innovazione tecnologica è un’europa destinata ad essere sottoposta ai diktat di chi accresce la sua potenza raccogliendo i frutti che l’innovazione tecnologica genera, un’europa destinata ad essere spettatrice (nel migliore dei casi) e oggetto di spartizione (nel peggiore) nella futura competizione geo-politica.
Forse, come molti dicono, il nuovo capitalismo digitale alla fine si dimostrerà incompatibile con la democrazia liberale. Va tuttavia osservato che quello fra capitalismo e democrazia è sempre stato un matrimonio difficile e tormentato. Ma è proprio quel matrimonio tormentato che ha fin qui dato alle società occidentali libertà e benessere. Ogni tanto si sentono echeggiare vecchi, vecchissimi argomenti adattati alle nuove circostanze. Argomenti che ricordano le tesi marxiane-marxiste sul rapporto fra struttura e sovrastruttura (il governo «comitato d’affari della borghesia» eccetera). Quelle tesi facevano già acqua quando le enunciò Marx. È lecito pensare che continuino a fare acqua. In ogni caso, quale sarebbe l’alternativa? Rimanere fuori dalla corrente che trascina oggi l’economia globale?
A pensarci bene c’è un legame fra il vade retro europeo, di certi settori del mondo europeo, nei confronti del capitalismo detto Big Tech e certe prese di posizione di segno apocalittico sul clima di coloro che predicano non lo sviluppo sostenibile ma la decrescita. Sono espressioni di una più generale sindrome del declino.
In Europa le antiche certezze sono svanite. C’è incombente la questione della sicurezza. C’è la difficile gestione della transizione da società mono-nazionali a società multietniche. C’è il problema dell’immigrazione clandestina. E c’è il problema, forse il più grave, il più ingestibile di tutti, della indisponibilità di ampi settori della società europea di raccogliere il guanto della sfida, il suo rifiuto di gettare sul piatto le ancora considerevoli risorse di cui l’europa dispone per saltare sul treno dell’innovazione tecnologica.
Ci sono fior di nostalgici del tempo che fu che contrappongono ai tristi tempi presenti il mondo più gentile, meno competitivo di una volta. Un mondo che, ovviamente, non è mai esistito. La competizione era dura prima. Come lo è oggi. Converrebbe non farsi tagliare fuori.

Fonte: Corriere

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