Le colpe della Cei nell’insabbiare gli abusi

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Ma chi ha pagato il risarcimento superiore al milione di euro alla vittima del Caso 16 nel report? Non il prete, né la parrocchia e nemmeno la diocesi, ma un “soggetto terzo”, che nel rapporto non viene mai esplicitato

Federica Tourn

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“Mi assumo personalmente la responsabilità per gli errori che sono stati commessi durante il mio mandato e da me, tra cui l’insufficiente controllo dei sacerdoti sospetti, la riluttanza nell’adottare chiare misure preventive nei confronti dei sacerdoti accusati e la documentazione carente nel delineare i passi nella gestione dei casi di abuso”.

Non si concede alcuno sconto il vescovo di Bolzano e Bressanone Ivo Muser che, durante la conferenza stampa del 24 gennaio, ha commentato così il report che lui stesso aveva commissionato allo studio legale Westpfahl-Spilker-Wastl di Monaco.

Si tratta della prima indagine indipendente sugli abusi nella chiesa italiana, che con chiarezza identifica cause e responsabili, smascherando di fatto e, par di capire, volutamente, l’inconsistenza dell’azione portata avanti fino ad ora dalla Conferenza episcopale italiana.

Emerge infatti che la Cei, con due resoconti sui dati raccolti dai centri d’ascolto e dai servizi di tutela dei minori di una parte delle diocesi italiane, non solo ha mancato in trasparenza ed efficacia nella lotta agli abusi, ma ha collaborato nella gestione opaca di un clamoroso caso di risarcimento: un milione di euro dati con un accordo extragiudiziale.

“Sappiamo che ciò che leggiamo nella perizia è solo la punta dell’iceberg – ha dichiarato monsignor Muser – La perizia mostra che l’abuso è stato facilitato da strutture di potere rigide, autorità incontrollata e da una carente ‘cultura dell’errore’. Descrive una chiesa che in molte aree era dominata da strutture nelle quali le vittime erano ignorate e i colpevoli protetti”.

L’inchiesta della diocesi di Bolzano e Bressanone esplora i casi di abuso su minori dal 1964, anno di istituzione della diocesi, al 2023, e fa nomi e cognomi dei vescovi e dei vicari generali che hanno insabbiato, scardinando il sistema omertoso di copertura dei responsabili su cui si basa il perpetuarsi delle violenze clericali (ne abbiamo parlato qui: e qui).

Coraggiosamente, il rapporto indica quindi la catena di comando, quel potere ecclesiastico che ha permesso che i sacerdoti pedofili restassero quasi sempre impuniti e, spostati di parrocchia in parrocchia, continuassero ad abusare di altri bambini. Un sistema che conosciamo ma che qui, grazie al lavoro negli archivi e alle testimonianze raccolte, viene raccontato nei dettagli, dai singoli trasferimenti degli abusatori agli atti di insabbiamento dei superiori.

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Un chiaro riconoscimento di responsabilità, quello del vescovo Muser, in decisa controtendenza rispetto all’atteggiamento difensivo a cui siamo stati abituati dai vescovi e dalle alte cariche della chiesa.

Suonano oggi grottesche le parole del vescovo di Piazza Armerina Rosario Gisana che, in una nota pubblicata sul sito della diocesi, continua a ribadire la sua estraneità alle accuse di aver mentito durante il processo a don Rugolo (ne abbiamo parlato qui), nonostante le ormai note intercettazioni in cui ammette di aver protetto il prete abusatore e le parole dei magistrati che lo hanno rinviato a giudizio per falsa testimonianza.

Ma non sono meno imbarazzanti le affermazioni del segretario generale della Cei, monsignor Giuseppe Baturi che, interpellato sul report della diocesi di Bolzano e Bressanone durante la conferenza stampa a conclusione del Consiglio permanente dei vescovi italiani dei giorni scorsi, ha detto soltanto: “lo studieremo: non vedo incompatibilità”. Dal cardinale Matteo Zuppi nessun commento.

Monsignor Baturi, secondo quanto riportano le agenzie, ha invece fatto promozione per il lavoro della Cei:

“Lo studio pilota sugli abusi segnalati e trattati dagli Ordinari diocesani nel periodo 2001-2021 ha già finito la sperimentazione e verrà presentato a fine anno”, ha spiegato infatti l’arcivescovo di Cagliari – per conoscere il fenomeno e sviluppare un’analisi ecclesiologica, sociologica, criminologica e metterla a paragone con altre indagini, per poi continuare con un approccio ancora più globale”.

“Conoscere la verità, apprestare strumenti di giustizia ma soprattutto approntare strumenti di prevenzione, è l’obiettivo dello studio pilota affidato dalla Cei all’istituto degli Innocenti di Firenze e al Centro per la vittimologia e la sicurezza-Alma Mater Bologna. Il nostro – ha proseguito il segretario generale della Cei – è uno sforzo di prevenzione per rendere i nostri ambienti più sicuri e per sollecitare a rivedere i criteri di sicurezza in tutti gli altri ambiti della società”.

Monsignor Baturi non ha risposto alle nostre domande e quindi non possiamo sapere che cosa pensi delle critiche puntuali che gli esperti di Monaco indirizzano proprio all’operato della Cei in materia di accertamento della verità e prevenzione degli abusi.

Ecco per esempio cosa si legge nel rapporto della diocesi di Bolzano e Bressanone sulle linee guida della Cei in materia di abuso, elaborate nel 2014:

“Queste Linee Guida della CEI costituirono il primo tentativo formale di stabilire, a livello interdiocesano, criteri e quadri di azione uniformi per la gestione delle accuse di abusi.

Queste indicazioni, tuttavia, rappresentarono a giudizio dei relatori uno strumento di fondo alquanto rudimentale e povero di contenuti, soprattutto in termini di prevenzione, sostegno alle persone offese e chiara attribuzione delle competenze”.

Non solo: i vescovi, sulla difensiva e preoccupati dell’esposizione mediatica, non sembrano preoccuparsi minimamente di chi è stato ferito. Parola delle vittime:

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“Dalle persone offese viene la critica che i vescovi continuino ancora oggi a vedere nella trattazione pubblica dei casi di abuso un attacco sferrato alla Chiesa cattolica. I vescovi mancherebbero inoltre di competenza emotiva”.

La chiesa non si interroga sulla propria responsabilità nella diffusione sistemica deli abusi clericali:

“Oltre a specificare che la responsabilità è personale, si sottolinea che la condanna costituisce una giusta pena e riparazione del danno cagionato. Nell’immaginario dell’istituzione ecclesiastica non sembra dunque esserci spazio per una corresponsabilità dell’istituzione e una più ampia compensazione del danno”.

La chiesa, anzi, tende a sentirsi vittima e a non intervenire con un adeguato sostegno a chi è in difficoltà:

“Oltre al riconoscersi, nel quadro di questi principi guida, un ruolo di vittima a fronte dei tradimenti che hanno duramente provato la comunità ecclesiale, la Chiesa cattolica pare voler circoscrivere il proprio compito alla mera creazione, attraverso misure preventive, di un ambiente sicuro per prevenire atti di abuso futuri e all’ascolto di coloro che già siano parte lesa, così da guidare e supportare le vittime in un cammino di riconciliazione, di guarigione interiore e di pace.

Non si fa invece minimo richiamo a una corresponsabilità istituzionale né a misure concrete di sostegno volte a eliminare situazioni di emergenza, di natura sia materiale che psichica, conseguite agli episodi di abuso”

Il progetto pilota di cui parla monsignor Baturi è stato presentato il maggio scorso dalla direttrice del Servizio nazionale per Tutela dei minori della Conferenza episcopale italiana Chiara Griffini e si basa su un’analisi a campione sulle diocesi italiane e su dati forniti dagli stessi vescovi, soltanto per il periodo che va dal 2001 al 2021 (ne parla nel dettaglio Ludovica Eugenio per Adista qui.

I risultati saranno elaborati da due enti, l’Istituto degli Innocenti di Firenze e il Centro interdisciplinare sulla vittimologia e sulla sicurezza dell’Università di Bologna, tutt’altro che indipendenti.

A questo si dovrebbe aggiungere la collaborazione con il Dicastero per la dottrina della Fede, nel cui archivio sono conservati 613 dossier con casi di abuso; collaborazione sbandierata già dal presidente della Cei Matteo Zuppi all’indomani della sua elezione a presidente dei vescovi nel 2022, ma di cui nulla si sa perché molto probabilmente non è mai partita. Nel progetto non si parla nemmeno di visionare i casi arrivati alla giustizia civile.

La Cei avrebbe quindi molto da imparare dall’Alto Adige ma, almeno da quanto si può capire da quello che scrive Avvenire, l’atteggiamento dei vescovi pare riassumersi in una presa di distanza dai risultati del report, condita da una buona dose di malafede quando sottolinea che la Cei, con lo studio-pilota, è “su un percorso simile” a quello intrapreso dall’inchiesta indipendente della diocesi di Bolzano e Bressanone. Nell’articolo del 20 gennaio, poi, c’è un paragrafo che sembra quasi un esercizio di contraddizione in termini:

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“Anche l’indagine di Bolzano-Bressanone non è priva di dubbi – scrive Avvenire – Come mostra il ‘caso 16’. Si tratta di un sacerdote che il dossier annovera come colpevole, dopo essere stato arrestato con l’accusa di aver “abusato per cinque anni alla fine degli anni Ottanta” di una ragazzina.

Però la Corte di Cassazione ha annullato la sua condanna per prescrizione del reato e la Congregazione per la dottrina della fede ha ritenuto che “non sia possibile individuare con certezza morale elementi che ne definiscano la colpevolezza”, mentre è stato pagato un “risarcimento a sei zeri” con una procedura di conciliazione dopo la sentenza dei giudici”.

Questo caso numero 16, raccontato nel report con dovizia di particolari, è infatti molto interessante.

Si tratta della storia di don Giorgio Carli, arrestato e messo in custodia cautelare nel 2003 con l’accusa di aver stuprato una bambina dai 9 ai 14 anni quando era cappellano nella parrocchia di San Pio X a Bolzano

.Il prete, assolto in primo grado, viene condannato in appello a sette anni e sei mesi e infine prosciolto in Cassazione nel 2009 per prescrizione. La storia però, non finisce lì: la prima sezione civile del tribunale di Bolzano riconosce per la prima volta in Italia la chiesa locale responsabile in solido con il prete e nel 2013 condanna diocesi e parrocchia a pagare un cospicuo risarcimento alla vittima.

Sia il vescovo Muser che la Congregazione per la dottrina della fede, che nel frattempo ha avviato un procedimento ecclesiastico nei confronti di don Carli, ritengono però che il sacerdote sia innocente; la diocesi quindi ricorre in appello contro la sentenza civile e nel frattempo avvia trattative di conciliazione con la parte offesa, arrivando alla fine a un accordo extragiudiziale. Si tratta di pagare un “importo a sei cifre”, che gli estensori del report in conferenza stampa hanno dichiarato essere oltre il milione di euro.

Ma qui viene il bello: chi ha pagato la ragguardevole cifra? Non il prete, né la parrocchia e nemmeno la diocesi, ma un “soggetto terzo”, che nel rapporto non viene mai esplicitato.

“Si scelse una soluzione extragiudiziale per non arrivare alla sentenza di appello – ha spiegato l’avvocato Ulrich Wastl dello studio legale Westpfahl-Spilker-Wastl – Questo risarcimento non fu dato dalla dioces” ma da un terzo soggetto, perché altrimenti sarebbe stata evidente l’ammissione di colpa della diocesi”.

La Cei, coinvolta fin dall’inizio nell’operazione, “non ha brillato nella comunicazione del caso”, ha aggiunto Wastl.

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Ecco cosa si legge a questo proposito nel report:

“Nel contesto della composizione bonaria perseguita dalla Diocesi di Bolzano- Bressanone, seguivano quindi trattative con un soggetto terzo, il quale un anno dopo la sentenza civile pronunciata in primo grado così si rivolgeva [in italiano N.d.T.] al Vescovo Muser:

“[…], constato che da anni la Diocesi di Bolzano-Bressanone si trova angustiata da una causa contro un suo sacerdote, che da parte mia ritengo perfettamente innocente, ma vedo che questa diatriba ha ripercussioni sulla stessa vita diocesana e pertanto nella mia titolarità di […] ossia di fratello “maggiore” chiamato a condividere, fraternamente e con pieno rispetto dell’autonomia diocesana, le responsabilità pastorali in casi di emergenza, proporrei di offrire la mia mediazione per una transazione extragiudiziaria che ponga fine alla vertenza. […]

“Ovviamente né io [N.d.A.: Il rappresentante del terzo] né [il terzo] intendiamo riconoscere con ciò una colpevolezza del sacerdote in questione né una qualsiasi responsabilità della Diocesi di Bolzano-Bressanone o in qualche modo della [parte terza] verso la cosiddetta vittima, ma solo agire per riportare pace, di fronte alle molte attività che già svolgete per il bene di tutto il popolo”.

Chi è questo “fratello maggiore” disposto a coprire con denaro e discrezione i guai del vescovo di Bolzano? Certo un soggetto con grande disponibilità di fondi, magari prelevati dall’otto per mille; forse addirittura la Cei, “coinvolta sin dall’inizio nell’operazione”, come ha detto l’avvocato Wastl, e che “non ha brillato nella comunicazione del caso”.

Lo conferma lo stesso vescovo nel rapporto: “Interpellato a tal riguardo, il vescovo Ivo Muser aggiungeva che la conciliazione era stata concordata con la Conferenza Episcopale Italiana”.

Forse si tratta soltanto di fare due più due; in ogni caso il fratello maggiore, anche lui convinto dell’innocenza del prete, non è da cercare fuori dalla chiesa italiana.

Don Giorgio Carli, intanto, continua a essere attivo nella diocesi, con un ministero che si occupa dei fedeli di lingua italiana della parrocchia di Vipiteno.

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