Non c’è tregua per le pensioni

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Contributi per le imprese

 


Per le pensioni italiane, si sa, non vi è mai tregua. Non pago degli interventi restrittivi già delineati in autunno e nei due anni precedenti della legislatura, il governo Meloni, nel pieno delle feste natalizie, ha inserito in extremis nella legge di bilancio l’ennesimo tassello del feroce accanimento contro il sistema previdenziale pubblico.

E così, insieme al rinnovo dei tagli alle percentuali di indicizzazione all’inflazione e all’allungamento delle finestre di attesa per l’accesso alla pensione anticipata, entra in scena, come un colpo contro la Croce Rossa, l’inasprimento dei requisiti di accesso alla pensione anticipata puramente contributiva.

Vediamo, in primo luogo, a quale forma di pensione stiamo facendo riferimento. Nel ginepraio della normativa previdenziale italiana, tra le varie strade alternative, sempre più depotenziate e marginalizzate, rispetto a quella “standard” costituita dalla pensione di vecchiaia a 67 anni, vi è, in vigore dalla Riforma Fornero del 2012, la possibilità, per chi abbia iniziato a versare contributi dal 1996 (ovvero con il solo sistema contributivo) di andare in pensione a 64 anni con almeno 20 anni di contributi e con un primo assegno pensionistico pari almeno a un certo multiplo dell’importo mensile dell’assegno sociale.

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Si tratta di un’opzione che nei primi anni dopo la sua definizione ebbe scarsissima adesione poiché con solo 20 anni di contributi il sistema contributivo conduce ad una rendita pensionistica bassissima e solo in pochi potevano contare su un primo assegno pari, all’epoca, a 2,8 volte l’assegno sociale.

Ricordiamo, infatti, che la pensione, nel sistema contributivo, è funzione dei contributi versati lungo tutta la vita lavorativa dell’individuo. Rispetto al sistema previgente, ovvero quello retributivo (che prevedeva che la pensione fosse commisurata retribuzione degli ultimi anni di carriera), il sistema contributivo dà vita a pensioni più basse.

Con il trascorrere degli anni la platea dei potenziali beneficiari dell’anticipata totalmente contributiva si è lentamente allargata e si allargherà sempre più nei prossimi anni. Ad oggi, chi abbia iniziato a versare i contributi nel 1996 avrebbe totalizzato 29 anni di contribuzione. Di fronte ad un’opzione che, seppur molto penalizzante dal punto di vista economico – a causa dei meccanismi impliciti del sistema contributivo – potrebbe diventare nell’immediato futuro appetibile e sostenibile per qualcuno, il governo che fa? Ne riduce accuratamente il perimetro con un doppio provvedimento a tenaglia.

1. Aumenta la soglia minima per l’accesso all’opzione, che da 2,8 volte l’assegno sociale passerà da quest’anno a 3 volte, ovvero circa 1.720 euro al mese. Un requisito inspiegabile se non come forma punitiva dei più poveri ai quali viene preclusa a priori l’adesione a questa possibilità.

2. Aumenta da 20 a 25 per il 2025, e a 30 a decorrere dal 2030, il numero minimo di anni di contribuzione necessari per accedere a questa forma di pensionamento.

Pian piano, insomma, si va a neutralizzare uno strumento evidentemente concepito come transitorio con l’idea di portarlo ad esaurimento nel corso dei prossimi anni lasciando in campo soltanto i due pilastri della pensione di vecchiaia (ad oggi 67 anni e 20 anni di contributi, più un importo minimo di pensione pari all’assegno sociale per chi ha iniziato a versare dal 1996) e di quella anticipata priva di requisiti anagrafici (ad oggi 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 e 10 mesi per le donne).

La previdenza complementare per andare in pensione prima: non flessibilità, ma lusso per pochi

Vi è inoltre un altro dettaglio interessante sulla vicenda. Alle suddette restrizioni il governo ha accompagnato un’ulteriore misura presentata come favorevole per i lavoratori: la possibilità di unire, ai fini del raggiungimento dell’importo minimo necessario per accedere alla pensione anticipata contributiva, le eventuali somme di denaro destinate alla previdenza complementare.

Questa possibilità, presentata come un “generoso ampliamento dei margini di libertà” del lavoratore, è, in primo luogo, una scelta accessibile a pochissimi. Non a caso, la relazione tecnica della manovra quantifica in appena 100 (destinati a diventare, nei prossimi anni, ben 600) il numero di persone potenzialmente interessate. Questo perché la previdenza complementare è un lusso che soltanto pochi lavoratori possono permettersi: solo coloro che riescono a risparmiare abbastanza da alimentare in maniera significativa il loro conto contributivo volontario.

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E questo ci permette di affrontare un altro punto: la natura profondamente discriminatoria della misura. La pensione complementare, da sempre, è appannaggio dei pochi fortunati che possono permettersela. E la discriminazione non è solo reddituale, perché se si guarda alla composizione sociodemografica della platea degli iscritti, sono prevalenti gli uomini (62% del totale), gli iscritti del Nord (57,1%) e i lavoratori con più di 35 anni (oltre l’80%).

In altri termini, a essere meno presenti sono le donne, i lavoratori del Mezzogiorno e i giovani. Esattamente le categorie più deboli nel mercato del lavoro. Questi dati sono tratti dalla Relazione COVIP (la Commissione di Vigilanza sui fondi pensione) per il 2023, ma sono la conferma di ciò che si registra anno dopo anno nelle relazioni di tale organismo.

E i dati COVIP ci dicono anche che spesso e volentieri (specialmente quando il periodo interessato è toccato da turbolenze finanziarie, e dunque la necessità di protezione è maggiore) i rendimenti dei fondi pensione sono stati inferiori a quelli del TFR; e, di conseguenza, è ancora più immorale il fatto che la convenienza per i lavoratori venga forzata attraverso incentivi fiscali: attraverso tali incentivi, si utilizzano risorse a carico della fiscalità generale (e a vantaggio solo di alcuni) per favorire l’afflusso di fondi a un settore privato che, come si è detto, è meno “conveniente”.

L’assalto (l’ennesimo) al TFR

La trovata del governo nasconde in verità i termini di una grossa partita che va avanti da quasi vent’anni attorno al sistema previdenziale italiano e, in forme simili, degli altri paesi europei.

Proprio vent’anni fa, nel contesto della graduale restrizione dei diritti pensionistici, il decreto legislativo 252/2005 riformò la disciplina delle forme di previdenza complementare, già introdotte dalla legge 421/1992, prevedendo, tra le altre cose, la possibilità per i lavoratori di devolvere il TFR presso fondi pensione negoziali o privati anziché lasciarlo, come tradizionalmente era sempre avvenuto, in azienda.

Secondo quella norma la scelta del versamento del TFR in azienda era modificabile in qualunque momento, mentre il versamento del TFR maturando in un fondo pensione rappresentava una scelta irreversibile.

Nel 2007 il governo Prodi introdusse la disciplina del silenzio-assenso, per la quale in assenza di un’esplicita preferenza espressa sulla destinazione del TFR, quest’ultimo sarebbe stato convogliato irreversibilmente nei fondi pensioni. Da allora i neoassunti nei primi sei mesi del rapporto di lavoro devono stabilire la destinazione del proprio TFR e in caso di silenzio la scelta ricade automaticamente sui fondi pensione.

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Malgrado questo e malgrado gli ingenti vantaggi fiscali di cui gode la previdenza complementare oggi soltanto un terzo dei lavoratori ha optato (esplicitamente o passivamente) per destinare il proprio TFR ai fondi pensioni, mentre il resto dei due terzi ha optato per lasciarlo in azienda.

Quest’ultima opzione nel concreto implica due possibili esiti. Per le imprese medio-piccole con meno di 50 dipendenti il TFR resta nelle casse aziendali fornendo a queste ultime utile liquidità, mentre per le grandi aziende (oltre i 50 dipendenti) si ha un accantonamento presso un Fondo di Tesoreria INPS e tale liquidità diventa dunque fruibile dall’ente per la spesa previdenziale corrente.

Qualora invece venga scelta (attivamente o passivamente) la destinazione presso i fondi pensione si apre un ventaglio di diverse ipotesi che includono – nell’essenziale – l’esistenza di fondi “chiusi” negoziali gestiti dalle parti sindacali e senza scopo di lucro e fondi “aperti” di natura privata con scopo di lucro.

In entrambi i casi i soldi dei lavoratori vengono investiti nella sfera finanziaria con prospettive di rendimento molto variabili, senza alcuna garanzia di mantenimento del valore reale del capitale investito. Il TFR in azienda (o presso la Tesoreria INPS) viene invece automaticamente rivalutato al 75% dell’inflazione più un 1,5% costante.

Malgrado gli evidenti rischi della previdenza complementare, da vent’anni si avvicendano campagne di promozione di quello che viene definito un “irrinunciabile pilastro” del sistema pensionistico alimentate dalle sirene sull’ineluttabile inadeguatezza della previdenza pubblica. Contestualmente è stata plasmata una legislazione costruita ad arte per incentivare o forzare milioni di lavoratori ad aderirvi. Milioni e milioni di euro dei lavoratori dirottati verso la speculazione finanziaria.

Malgrado tutto questo la previdenza complementare, sebbene in crescita, fatica a decollare davvero. Ed ecco che i governi di turno si affannano a rinnovare ogni tipo di strumento per favorirla ad ogni costo.

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È in questo contesto che va inquadrata la norma che consentirebbe ai lavoratori di cumulare le quote di pensione integrativa ai fini del raggiungimento del valore minimo (3 volte l’assegno sociale) per accedere alla pensione contributiva anticipata.

Ed è in questo stesso contesto che si inquadra anche un altro recentissimo tema di discussione ruotante attorno ad una doppia possibile proposta discussa negli scorsi mesi e rieditata negli ultimi giorni volta ancora una volta a convincere o obbligare i riottosi lavoratori a dirottare il proprio TFR verso i fondi pensione.

Una prima proposta caldeggiata dalla Lega in autunno (ed ora, sembra, provvisoriamente accantonata) consisterebbe nell’obbligare i lavoratori a versare il 25% del TFR ai fondi pensione complementari. Una proposta diretta e senza fronzoli che ha suscitato qualche perplessità nello stesso governo.

Ne è seguita una seconda proposta, sembra di maggior successo, caldeggiata in particolare da Fratelli d’Italia: una riedizione nel 2025 del semestre di silenzio-assenso già sperimentato nel 2007, in cui non soltanto i neoassunti (come già avviene oggi per i primi sei mesi di un nuovo contratto), ma tutti i lavoratori sarebbero messi di fronte alla ridiscussione della scelta sulla destinazione del proprio TFR.

In caso non dovessero esprimere alcuna scelta, le proprie quote di TFR d’ora in avanti andrebbero automaticamente e irreversibilmente nei fondi pensione. E questo varrebbe anche per chi finora ha esplicitamente optato per il TFR in azienda.

Dal momento che la legislazione di oggi già consente di transitare volontariamente dalla strada del TFR in azienda alla strada dei fondi pensione (ed impedisce invece il percorso inverso), è più che evidente l’intento manipolatorio della misura: catturare nelle maglie della previdenza complementare centinaia di migliaia di lavoratori “distratti” che nei sei mesi suddetti non dovessero esplicitamente dichiarare la loro opzione vuoi per inerzia vuoi per scarsa informazione.

Un trucchetto che ebbe buon gioco nel 2007 per tutti i lavoratori e che per i neoassunti ha continuato a funzionare continuativamente portando nel periodo 2007-2023 ben 609.000 lavoratori (dati tratti dalla già citata relazione COVIP relativa al 2023) nelle braccia della previdenza complementare attraverso un’adesione tacita. Non proprio un esercizio dignitoso di democrazia partecipativa.

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La stessa relazione COVIP ci informa, tuttavia, che al 2023 solo il 36,9% dei lavoratori italiani (dipendenti e autonomi) risulta iscritto a qualche forma di previdenza complementare e solo il 26,7% ha versato contributi volontari (oltre alle quote TFR) nel corso del 2023.

È evidente che le politiche di forsennata incentivazione portate avanti tramite meccanismi truffa e incentivi fiscali di dubbia costituzionalità, che discriminano i trattamenti previdenziali pubblici rispetto a quelli privati, hanno funzionato soltanto in parte. Vi è ancora un’enorme quota di lavoratori e lavoratrici che di previdenza complementare non vuole saperne. Ed ecco allora rientrare in gioco trucchi, trucchetti e meccanismi volti a ingrossare la quota di redditi da lavoro da destinare alla speculazione finanziaria privata.

La partita delle pensioni, ancora una volta, vede operare alacremente gli smantellatori di professione dello Stato sociale e del ruolo dello Stato nell’economia a favore degli interessi di banche, assicurazioni e fondi di investimento. A fronte di questo scempio programmato da decenni occorre rilanciare con forza il sistema pensionistico pubblico garantendo pensioni adeguate a lavoratori e lavoratrici del futuro.

*Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org

– © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO


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