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Cosa c’entra la teoria di Habermas sull’azione comunicativa con un migliore posizionamento online? Chi è in un momento di difficoltà professionale deve fare leva sul valore del proprio network. Ma rispettando alcune regole. L’analisi di Fabiana Andreani, una delle massime esperte italiane in orientamento e carriera, seguitissima sui social
Alcuni giorni fa, nel mio feed di LinkedIn, mi sono imbattuta in un post di una persona indignata per dover «fare tre colloqui per uno stage» e perché «tanto si sa che non ci vuole più di tre mesi per apprendere un nuovo lavoro». Il post aveva molte interazioni positive e tanti commenti di empatia: secondo i parametri della maggior parte delle piattaforme, poteva essere considerato un contenuto di successo. Risultati simili li ottengono i post in cui si racconta la propria esperienza con centinaia di candidature andate a vuoto, recruiter incompetenti e un mondo del lavoro ormai marcio, «mentre all’estero certe cose non succedono». Okay.
Il mondo del lavoro è complesso e la ricerca di una nuova occupazione può essere fonte di difficoltà e frustrazione. Non voglio assolutamente sminuire le sensazioni di chi è immerso in CV e candidature. Indubbiamente, inoltre, condividere le proprie esperienze può aiutare a sentirsi meno soli. Tuttavia, da quei like e da quella visibilità su LinkedIn, cosa otteniamo davvero per il nostro obiettivo?
Un datore di lavoro o un recruiter dovrebbe impietosirsi o convincersi della bontà del nostro profilo leggendo un post di lamentela? Il discorso è delicato, e qualcuno potrebbe pensare che io stia velatamente suggerendo di evitare il dissenso e la denuncia, promuovendo una comunicazione su LinkedIn fatta solo di toni autocelebrativi in stile «I’m thrilled to…». In realtà, il mio invito è un altro: riscoprire il valore della rete, che su LinkedIn, a differenza di altri social, esiste eccome.
Echo Chambers e il rischio della polarizzazione
Quello che prevale attualmente sui social è il fenomeno delle Echo Chambers (camere d’eco), come evidenziato in uno studio del 2021. In altre parole, il nostro feed e i contenuti che ci vengono proposti non sono mai neutrali o obiettivi, ma tendono a riflettere le convinzioni a cui prestiamo maggiore attenzione.
Questo fenomeno è influenzato da diversi fattori:
- Bias cognitivi: tendiamo a selezionare e interagire con contenuti che confermano le nostre credenze, un comportamento noto come “bias di conferma”.
- Algoritmi dei social media: le piattaforme personalizzano i contenuti mostrati agli utenti in base alle loro interazioni precedenti, favorendo l’esposizione a informazioni simili e limitando la diversità delle opinioni.
Gli effetti delle Echo Chambers sono evidenti:
- Polarizzazione: interagire solo con opinioni simili può intensificare le divisioni ideologiche e ridurre la comprensione reciproca tra gruppi con visioni opposte.
- Diffusione di disinformazione: all’interno delle Echo Chambers, informazioni false o fuorvianti possono diffondersi rapidamente senza essere contestate, poiché fonti alternative vengono escluse o screditate. Come dimostrato anche da uno studio Istat i social offrono terreno fertile anche per la diffusione degli stereotipi di genere.
Tuttavia, questo fenomeno può essere mitigato riportando la comunicazione nell’ottica dello scambio e dell’arricchimento reciproco.
Habermas e il valore della comunicazione su LinkedIn
Forse può sembrare strano tirare in ballo la teoria di Habermas sull’azione comunicativa in un contesto dominato da hype e vanity metrics. Tuttavia, come dimostra il paper “The Language of Opinion Change on Social Media under the Lens of Communicative Action”, possiamo usare questa teoria per sfruttare al meglio lo scambio di opinioni su LinkedIn.
Habermas sostiene che una società più equa e democratica è possibile solo se la comunicazione si basa sulla comprensione reciproca e sulla razionalità, anziché sulla manipolazione, sulla strategia e sulla ricerca del consenso a tutti i costi. L’obiettivo è utilizzare il linguaggio per favorire un dialogo autentico e un’intesa razionale tra individui, piuttosto che per perseguire scopi utilitaristici e strategici, tipici del mercato o della politica.
Secondo lo studio citato, i messaggi che incorporano almeno un elemento di intenzione sociale hanno maggiori probabilità di influenzare chi li legge. Per “intenzione sociale” si intende l’uso del linguaggio con l’obiettivo di costruire una connessione o un’interazione significativa con l’interlocutore, anziché limitarsi a esprimere un’opinione in modo isolato.
Questa intenzione si manifesta attraverso tre dimensioni principali:
- Conoscenza Il messaggio fornisce informazioni, dati o spiegazioni per supportare un punto di vista.
- Somiglianza Il messaggio enfatizza elementi condivisi tra interlocutori, come esperienze simili o punti di vista affini.
- Fiducia Il linguaggio trasmette credibilità e autorevolezza, citando fonti affidabili o utilizzando un tono sicuro e professionale.
I risultati dello studio mostrano che i commenti privi di intenzione sociale hanno il 77% di probabilità in meno di cambiare l’opinione del destinatario. Questo significa che i messaggi puramente polemici, senza un tentativo di connessione con l’altro, sono molto meno efficaci nel generare un cambiamento di prospettiva.
Quindi, in pratica, come ci si lamenta su LinkedIn?
Abbiamo scomodato Habermas e un paper pubblicato su Nature, ma come li dobbiamo scrivere questi post? Se vuoi condividere una difficoltà lavorativa su LinkedIn, fallo in modo strategico, trasformandolo in un’opportunità per creare valore e connessioni autentiche:
- Esponi la situazione dimostrando autenticità ed empatia → Parla delle tue paure, ma evita il pietismo.
- Fornisci dati o racconta come hai affrontato la situazione → Supporta il tuo punto di vista con dati ufficiali o esperienze personali, ma senza polemica.
- Chiedi suggerimenti o opinioni → Gli altri come hanno affrontato situazioni simili? Cosa possono consigliarti?
Il risultato? Una rete di supporto, consigli pratici e la dimostrazione di saper gestire le difficoltà con maturità.
Perché tanto “Problem Solving” ce l’abbiamo scritto tutti nel CV, vero? Di tutto questo discorso, ne ho fatto anche un video che puoi vedere qui.
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