Con la cultura si mancia, la destra aumenta di 65 milioni il “fondo-marchette”

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Con la cultura forse non si mangia, come recita la vecchia battuta attribuita all’ex ministro Giulio Tremonti, che in realtà smentisce continuamente di aver pronunciato.

In ogni caso con il decreto Cultura c’è una mancia, nel senso che si foraggiano mance a piene mani.

Nel provvedimento, approvato alla Camera e inviato ora al Senato per il via libera definitivo (senza possibilità di correttivi), è stato infatti inserito un potenziamento del cosiddetto “fondo mancia” introdotto dalla manovra economica varata a fine dicembre: sono in totale 65 milioni di euro in più, spalmati sul prossimo triennio.

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Lo scopo? Finanziare le misure più disparate che vanno dal turismo alla celebrazione di eventi fino alla ricerca e all’innovazione digitale.

Insomma, non sono soldi messi a disposizione del settore culturale, come si poteva immaginare vista la natura del decreto, magari anche per finanziare il piano Olivetti, fortemente voluto dal ministro Alessandro Giuli per favorire la diffusione della cultura e delle biblioteche nelle periferie e nelle aree con maggiore disagio sociale.

Una bella idea, certo, ma che è una scatola vuota: per attuare il piano bisogna reperire i fondi, che invece vengono dispersi in mille rivoli. Proprio sotto gli occhi del ministro.

Più soldi alle micro misure

Gli stanziamenti, come prescritto dalla finanziaria, possono sostenere interventi a favore degli enti locali, elargire contributi economici ad associazioni, fondazioni ed enti operanti sul territorio, così come possono dare supporto a progetti sportivi e a un generico sviluppo di infrastrutture.

Un salvadanaio da cui attingere in base alle esigenze. Ma evidentemente per la destra non era abbastanza, la dotazione iniziale è stata ritenuta insufficiente.

Nella legge di Bilancio i fondi nel loro complesso ammontavano (dal 2025 al 2027) a 101,7 milioni di euro.

Così è stato individuato il decreto Cultura per rimpinguare la somma a disposizione: con gli incrementi infilati nell’ultimo provvedimento, si sfiorano i 167 milioni di euro.

La distribuzione prevede, nel complesso, una spesa di quasi 37 milioni di euro nel 2026, 70,4 milioni di euro nel 2026 e 59,7 milioni nel 2027. E poco male se le materie dei possibili interventi c’entrino poco o niente con la cultura.

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Uno strappo che ha sfruttato l’iniziale distrazione delle opposizioni, peraltro nel pieno vortice del caso-Almasri.

Sono state poche le voci che si sono levate su questo punto, si è sentita quella deputata e capogruppo del Pd in commissione Cultura alla Camera, Irene Manzi: «Questi fondi rischiano di essere utilizzati per sostenere giunte amiche o iniziative mirate esclusivamente a raccogliere consenso, senza una reale valutazione dell’interesse pubblico», ha denunciato dopo il via libera all’emendamento voluto dalla maggioranza, in maniera compatta. La firma in calce è stata quella dei capigruppo della commissione Bilancio, Ylenia Lucaselli (Fratelli d’Italia), Silvana Comaroli (Lega), Roberto Pella (Forza Italia) e Francesco Saverio Romano (Noi Moderati). Insomma, un’iniziativa ben pianificata.

«Stiamo utilizzando un fondo istituito in legge di bilancio in sostituzione di quella che fu, una volta, la legge Mancia, cioè per distribuire marchette», ha spiegato senza mezzi termini, intervenendo in aula a Montecitorio, l’altra parlamentare dem, Maria Cecilia Guerra.

Nel corso dell’esame è emerso un altro rischio: la pioggia di risorse potrebbe essere concessa senza badare troppo ai principi della trasparenza o quantomeno di un confronto parlamentare.

Basta un decreto ministeriale ed ecco che qualche territorio amico o associazione gradita può brindare al finanziamento statale.

Un ordine del giorno di Lucaselli, una delle registe dell’operazione, ha confermato l’intenzione della maggioranza: impiegare i fondi per una serie di micro-misure territoriali. L’atto di Lucaselli è stato in realtà un “tecnicismo”, che ha corretto alcuni precedenti ordini del giorno presentati alla legge di Bilancio. In ogni caso è stato il sigillo all’iniziativa voluta dalla maggioranza.

Sgarbo Quirinale

Al netto delle proteste, forse tardive delle opposizioni, la destra ha tirato dritto per la propria strada. Ha portato a compimento un’operazione temeraria dal punto di vista legislativo con possibili ricadute sui rapporti istituzionali.

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La modifica al testo, infatti, rappresenta una mossa che suona come un affronto al Quirinale. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in più di un’occasione ha chiesto al governo, e di conseguenza ai presidenti delle Camere, Lorenzo Fontana e Ignazio La Russa, di vigilare sull’attinenza degli emendamenti con i temi trattati dai rispettivi decreti. Dopo le raccomandazioni di sorta, però, si continua a forzare la mano, sia con i voti di fiducia che con i decreti monstre.

Ma tutto il decreto, che ora sarà blindato in secondo lettura al Senato, è stato un grande pasticcio. «Un provvedimento che non avrà alcun impatto concreto sui settori culturali», lo ha definito Manzi. Il ministro Giuli si è soffermato soprattutto sulla creazione di una struttura di missione per il piano Olivetti.Un organismo che però era stato già bocciato dal sottosegretario, Alfredo Mantovano, che aveva corretto la prima versione del decreto.

Alla fine Giuli ha dovuto accontentarsi dell’istituzione di una sola posizione da dirigente. Con un paradosso: parte degli stanziamenti del decreto Cultura riguardano assunzioni di personale o addirittura misure estranee al comparto. Ma che tornano all’eterno tema delle mance da elargire.

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