In viaggio in Argentina con la delegazione bresciana di Confagricoltura fra i vigneti della Valle de Uru dove domina il modello francese di Moet&Chandon
Mendoza (Argentina) Nei ristoranti più alla moda di Palermo e della Recoleta a Buenos Aires da qualche tempo a questa parte va alla grande il «Pecorino de Roma», un formaggio ovino a pasta dura che di italiano ha solo il nome. È l’incarnazione proteica del cosiddetto italian sounding, una oramai arcinota strategia di marketing che fa leva su una vaga immagine di italianità con l’obiettivo di attirare una clientela tanto munifica quanto distratta e che, alle nostre latitudini, viene considerata la principale avversaria del vero, premiante made in Italy agroalimentare.
Eppure, a osservare le famiglie, le giovani coppie e i gruppi di amici seduti ai tavolini dei dehors in quest’estate argentina dominata dalla fiducia in un peso sempre più forte e stabile, si potrebbe essere tentati di ribaltare l’intoccabile tautologia. E farlo provando ad azzardare una diversa lettura del fenomeno imitativo-contraffattivo che, mal calcolati, vale circa 50 miliardi di euro di mancati (o supposti mancati) introiti per le nostre imprese. Cioè: non è che tutte queste imitazioni in ultima istanza potrebbero anche tornarci utili, aprendo in qualche modo la strada a una graduale strategia di penetrazione per un cluster di prodotti evocativi di un territorio, facili da movimentare e capaci di remunerare l’intera catena del valore?
Nel ragionamento si è cimentato Giovanni Garbelli. Il presidente di Confagricoltura Brescia ha infatti guidato per il secondo anno consecutivo una delegazione di imprenditori agricoli fra i campi coltivati a mais e soia, i pascoli di Angus e i vigneti di Malbec, Cabernet Sauvignon, Criolla, Pinot Noir e Semillón per provare a leggere con occhiali differenti il fenómeno Argentina: «Questo è un Paese molto grande, un Paese emergente, un Paese che anche quest’anno ci ha mostrato tante contraddizioni, un Paese con ampie potenzialità e che sta attraversando sicuramente una fase nuova generata da un governo, quello di Javier Milei, alla ricerca di un modo per incoraggiare gli imprenditori stranieri a investire in loco portando poi i prodotti agricoli argentini in giro per il mondo».
La regione di Mendoza, da questo punto di vista, è la dimostrazione forse più evidente di questo cambio di passo. Storicamente vocati alla viticoltura, i territori che giacciono ai piedi della Cordigliera Andina sono cresciuti e maturati proprio grazie alla spinta dei grandi gruppi vitivinicoli europei, spagnoli e francesi in testa. Ad esempio a Luján de Cuyo, a circa mille metri di altitudine, a fianco degli imprenditori iberici come i fondatori delle bodegas Don Manuel Villafañe e Alta Vista che portarono dalla Rioja la coltura della vite su questi suoli sabbiosi dominati da un clima secco e con grandi escursioni termiche, vengono prodotti da Moet & Chandon del gruppo Lvmh ogni anno oltre quaranta milioni di bottiglie a marchio Chandon, bollicine di media-buona qualità destinate a creare una cultura dello champagne senza però esserlo per davvero.
«Stiamo parlando di realtà difficilmente confrontabili con Brescia — avverte Garbelli —. Eppure, ciò che conta è il modello vincente, da cui possiamo trarre alcune indicazioni preziose. La viticoltura bresciana, con i suoi cinque consorzi, si rivolge a un consumatore in grado di comprendere l’alta qualità, e ciò giustifica produzioni di nicchia rispetto a ciò che abbiamo potuto osservare nella Valle de Uco, dove invece il vino punta al grande pubblico e quindi al mercato mondiale. Una scelta strategica e imprenditoriale completamente diversa dalla nostra e per questo utile da studiare poiché potrebbe interessare alcuni dei nostri associati, non solo viticoltori, che sono alla ricerca di progetti di sviluppo anche fuori dal territorio nazionale».
Tema, quest’ultimo, di grande attualità, considerando i futuri cambiamenti negli equilibri commerciali internazionali che potrebbero essere innescati dai nuovi dazi nordamericani all’importazione di prodotti europei voluti da Trump, nonché dalle ricadute dell’accordo Ue-Mercosur in via di definizione che andrebbe a liberalizzare l’importazione di una serie di derrate agricole in Europa in cambio dell’apertura sudamericana alla nostra industria metalmeccanica.
Scenario che la delegazione di Confagricoltura, composta oltre che da Garbelli anche dai vicepresidenti provinciali, Luigi Barbieri e Oscar Scalmana, nonché dal presidente nazionale del settore suini, Rudy Milani, ha ampiamente discusso a Buenos Aires durante i due incontri istituzionali intercorsi con Claudio Farabola, Ceo della Camera di Commercio italiana in Argentina, e con Francisco Fialá, membro del Consiglio generale degli italiani all’Estero. «C’è qui — ragiona il numero uno dell’Upa — un evidente disegno nazionale che vuole rendere sempre più presenti i prodotti agricoli argentini nei mercati mondiali. Quindi bisogna capire l’Italia che ruolo vuole giocare in questa partita: proporre la nostra alta qualità a un mercato che economicamente e culturalmente appare ancora non adeguatamente maturo a comprenderli e ad apprezzarli, oppure, prendere un biglietto aereo e venire qui a investire, portando in Argentina il nostro know how studiando prodotti italian sounding capaci di creare una narrazione italiana propedeutica a un successivo piano di penetrazione».
Seguendo il ragionamento dei dirigenti di Confagricoltura alle prese con la dialettica sudamericana dei due attaché, pare di cogliere come il punto di vista italiano sia inquinato da una sorta di sopravvalutazione strutturale della potenza del made in Italy. Chiude sul punto Garbelli: «Non è che il prodotto italiano si venda da sé perché è italiano. E, come ci è stato più volte confermato, non è nemmeno detto che piaccia da subito. Serve un racconto mirato e serve anche un interlocutore preparato. I due dirigenti che abbiamo incontrato sono stati chiari: non è detto che i nostri prodotti piacciono agli argentini. E questa è un’indicazione che non vale solo per il Sudamerica. Forse varrebbe la pena prender spunto dal modello Chandon e non continuare a demonizzare l’italian sounding ma, anzi, governarlo e trasformarlo in uno strumento per portare l’italianità nel mondo».
Spiace ammetterlo, ma abbiamo ancora molto da imparare dai cugini d’Oltralpe.
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