Dalla newsletter settimanale di Greenkiesta (ci si iscrive qui) – Parlare di smog senza lasciarsi sopraffare dall’emotività non è sempre facile, innanzitutto perché in ballo c’è la salute, una delle cose più preziose che abbiamo. Per evitare allarmismi e individuare nitidamente le responsabilità politiche, dobbiamo innanzitutto ricordare due aspetti chiave: l’aria di oggi è più pulita rispetto a quella di tanti anni fa, ma i miglioramenti sono troppo timidi e negli ultimi anni stiamo assistendo a inversioni di tendenza non incoraggianti. Dal 2030 entreranno in vigore soglie comunitarie più stringenti, e pochissime città italiane sono davvero pronte ad alzare l’asticella delle loro politiche ambientali.
A inizio febbraio il tema è tornato in auge dopo la pubblicazione del Report Mal’Aria 2025 di Legambiente, e – solo a tratti, per fortuna – ho avuto la sensazione di tornare indietro di un anno, più precisamente alla seconda metà del febbraio 2024, quando una classifica sulle città più inquinate al mondo stilata da un’azienda svizzera di depuratori d’aria aveva mandato in tilt i social.
Influencer privi di competenze medico-scientifiche che consigliavano alle persone di non uscire di casa (spoiler: a volte l’inquinamento indoor è più alto rispetto a quello outdoor); giornali e pagine social che pubblicavano titoli su Milano «città più inquinata del pianeta»; gente comprensibilmente spaventata e disorientata di fronte a un panorama informativo incapace di comunicare il rischio senza inciampare nel sensazionalismo. Un’isteria collettiva controproducente a ogni livello, paragonabile sotto certi aspetti alle prime fasi della pandemia.
È giusto, però, essere arrabbiati e preoccupati, perché l’Italia rimane il primo Paese europeo per morti premature connesse all’esposizione prolungata al particolato fine (PM10 e PM2,5) e al biossido d’azoto (NO2). È giusto cercare di proteggersi, adottare piccoli accorgimenti quotidiani e pretendere di respirare aria pulita, un diritto che – come scrive il comitato Torino Respira – «deve essere considerato inviolabile, un’espressione dei tutelati diritti alla vita, alla salute, all’ambiente, sanciti dagli articoli 2, 32 e 9 della Costituzione».
Nel 2024, secondo il sopracitato report di Legambiente, venticinque capoluoghi di provincia italiani su novantotto hanno oltrepassato le soglie giornaliere europee sulla concentrazione di PM10 nell’aria (massimo trentacinque giorni l’anno con una media giornaliera superiore ai cinquanta microgrammi per metro cubo). Da questo punto di vista, Milano può essere considerata la città più inquinata d’Italia, dopo Frosinone: sono stati sessantotto i giorni del 2024 in cui le concentrazioni di PM10 hanno varcato i limiti di legge nel capoluogo lombardo.
La centralina considerata è stata quella Arpa di viale Marche, quindi non è detto che la situazione sia la stessa in tutta la città. Tuttavia, specifica Legambiente, anche le centraline di Senato, Pascal Città Studi e Verziere «hanno abbattuto il muro dei trentacinque giorni», rispettivamente con cinquantatré, quarantasette e quarantaquattro sforamenti.
Per quanto riguarda l’NO2, «in nessuna città il valore medio annuale ha superato il valore limite stabilito dall’attuale normativa europea fissato in quaranta microgrammi per metrocubo», ma il quarantacinque per cento dei centri urbani analizzati da Legambiente non appare allineato ai limiti più stringenti in vigore dal 2030 (venti microgrammi per metro cubo d’aria, la metà rispetto alla norma attuale).
Sfogliando le pagine del sito del Comune di Milano, si legge che «l’inquinamento atmosferico è il primo fattore ambientale di rischio per la salute dei milanesi». In città, lo smog è gradualmente diventato una constatazione, una caratteristica intrinseca e immutabile a causa di una morfologia sfortunata (la conformazione “a conca” della pianura Padana sicuramente non aiuta). Ma è sufficiente leggere qualche dato per capire dove stiamo sbagliando. La geomorfologia non deve essere una scusa, perché la situazione può e deve migliorare ovunque.
Lo dimostra l’esempio di Parigi, dove l’amministrazione della sindaca socialista Anne Hidalgo – in carica dall’aprile 2014 – ha chiuso più di cento strade ai veicoli a motore (vedi foto sotto), triplicato le tariffe di sosta per i Suv dei non residenti, eliminato circa cinquantamila posti auto, piantato centocinquantamila nuovi alberi e realizzato circa milletrecento chilometri di piste e corsie ciclabili. Il risultato? Gli inquinanti nell’aria sono scesi del quaranta per cento nel giro di dieci anni.
A Milano, invece, nel 2023 il tasso di motorizzazione è tornato a salire (più di cinquecento auto ogni mille abitanti). Dal 2013 al 2022, stando a un’elaborazione di Francesco Armillei sui microdati Istat, i cittadini che usano l’auto per andare al lavoro sono aumentati del sette per cento. Guarda caso, nel capoluogo lombardo quasi la metà del PM10 arriva dal traffico stradale, in aumento anche a causa dei tagli alle corse dei mezzi di trasporto di superficie e di una rete ciclabile ancora non sufficientemente omogenea. Il resto lo fanno il riscaldamento domestico (ancora troppo dipendente dal metano), le industrie e gli allevamenti nell’hinterland.
Questi numeri, non solo a Milano, hanno un peso sanitario ed economico che la politica non è in grado di quantificare. E senza dati è difficile capire come risolvere i problemi in modo mirato. Un esempio più virtuoso riguarda la Sanità Pubblica francese, che ha analizzato per la prima volta l’impatto dell’inquinamento atmosferico sull’insorgenza delle malattie croniche.
Secondo i risultati della ricerca, che si è focalizzata sul periodo 2016-2019, tra il dodici e il venti per cento delle nuove malattie respiratorie nei bambini e tra il sette e il tredici per cento delle nuove patologie respiratorie, metaboliche e cardiovascolari negli adulti sono legati all’esposizione «a lungo termine» al biossido d’azoto e al particolato fine. Tradotto: l’inquinamento, in Francia, è responsabile fino a quarantamila nuovi casi annui di malattie respiratorie nei bambini e fino a settantottomila negli adulti.
Il costo sanitario dell’esposizione al PM2,5 è pari a quasi duecento euro l’anno per abitante (12,9 miliardi di euro). Più bassa, invece, la cifra del biossido d’azoto: cinquantanove euro annui per cittadino (3,8 miliardi di euro). Se la Francia rispettasse le soglie dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che la Lega in Lombardia vuole abbandonare seguendo il triste esempio di Donald Trump e Javier Milei, risparmierebbe 11,3 miliardi di euro l’anno (centosettantaquattro euro ad abitante): un numero che risulterebbe ancora più alto aggiungendo l’impatto del PM10, non calcolato all’interno dello studio. Gli attuali limiti europei, ricordiamo, sono più blandi rispetto a quelli dell’Agenzia Onu per la tutela della salute.
In una situazione così delicata, premere sull’aspetto economico potrebbe rivelarsi una strategia utile, perlomeno a livello di sensibilizzazione di una cittadinanza che spesso fatica a digerire certe norme e certi cambiamenti. Vale anche per la crisi climatica: i danni del riscaldamento globale hanno già superato (di sei volte) i costi della transizione verde, ed è questo il dato su cui insistere maggiormente.
L’essere umano (come scrivevo qui) cambia approccio solo quando il conto in banca è a rischio. L’altro punto da sottolineare, senza allarmismi e sensazionalismi, è quello sulla salute. Insomma, l’inquinamento atmosferico ci fa ammalare di più e contribuisce a svuotare il nostro conto in banca: potrebbe essere questa la chiave comunicativa per passare dall’inazione all’azione, dalla lamentela alla proattività.
Il problema è che in Italia, a livello istituzionale, non sono mai stati effettuati studi simili a quello francese. E quindi non abbiamo abbastanza dati per comunicare le conseguenze sanitarie ed economiche dello smog. Come spiega Roberto Mezzalama, presidente di Torino Respira, «gli studi dell’Agenzia europea dell’ambiente dicono che la qualità dell’aria in Italia è peggiore che in Francia, e che la mortalità collegata all’inquinamento è ancora più alta. È logico quindi aspettarsi che l’Italia stia sopportando costi umani ed economici ancora superiori a quelli stimati per la Francia. Confidiamo quindi che il nostro ministero della Salute conduca un’analisi simile e condivida e ne condivida i risultati».
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