Valentina Castaldini (Forza Italia) e il caso dei giovani detenuti alla Dozza: «Comunità educanti contro il sovraffollamento. In Regione un tavolo di crisi sui percorsi alternativi»

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Bologna, la consigliera regionale forzista: «Abbiamo tra le mani una situazione molto problematica: questi giovani, anche se separati, alla Dozza rischiano di non avere volontari che li seguano»

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«L’uomo non è il suo peccato» era il mantra di don Oreste Benzi, fondatore della Papa Giovanni XXIII che, tra le tante attività di accoglienza di persone con disagio, disabilità, ai margini della società, ha portato in Italia anche il modello brasiliano del «Carcere senza sbarre», nelle Comunità educanti con i carcerati (Cec). «In Italia ci sono una decina di Cec, di cui la metà sono in Emilia-Romagna e ripercorrono l’esperienza brasiliana dell’Associazione per la Protezione Assistenza Condannati, un progetto innovativo, che si fonda su un percorso di rieducazione personalizzato per chiunque abbia sbagliato» spiega Valentina Castaldini, consigliera regionale di Forza Italia. «Lo scorso anno l’Assemblea legislativa ha scelto di organizzare una bellissima mostra fotografica “Dall’amore nessuno fugge”, per far conoscere il metodo Apac».

C’è la volontà di aprire una Comunità educante a Bologna?
«Giorgio Pieri, che è il referente delle Cec, da tempo si spende per aprire a Bologna una casa per donne recluse, ma il problema è trovare un posto adeguato. In generale, credo siano pronti ad aprire più comunità possibili, c’è il desiderio di crescere. E noi oggi abbiamo un tema di stringente attualità da affrontare».




















































Parliamo dei 70 giovani detenuti che si sta cercando di spostare alla Dozza per ridurre il sovraffollamento degli istituti minorili…
«Abbiamo tra le mani una situazione molto problematica, è oggettivo che questi giovani, anche se separati, alla Dozza rischiano di non avere percorsi di cura, volontari che li seguano. Gli educatori fanno già fatica al Pratello…Come Regione dobbiamo aiutare le realtà che già lavorano nella rieducazione e trovare soluzioni alternative. Le CEC nascono come risposta al bisogno di giustizia di una società che reclama sicurezza, rispetto delle vittime e bisogno di riscatto del reo. Sono luoghi di espiazione della pena alternativi al carcere, con percorsi educativi personalizzati da svolgere in un circuito comunitario protetto. Hanno regole molto rigide, ci può accedere chi è in una fase di espiazione in cui si può scegliere un pena alternativa, ma io nelle Cec ho visto vite rinate grazie alla possibilità che si dà alle persone che hanno avuto a che fare con il male di frequentare persone che portano vita nuova, attenzione 24 ore su 24. Si basano su un percorso legato all’idea di comunità: mangiare insieme, impiegare il tempo in maniera ordinata, prendersi cura di persone disabili. Tutto questo è altamente rieducativo. I numeri dicono che il tasso di recidiva di chi esce da una Cec è del 15%, contro il 70% di chi esce dal carcere, ma le Cec non ricevono alcun finanziamento pubblico».

Cosa potrebbe fare oggi la Regione?
«La mia richiesta, anche dopo aver parlato con il garante regionale, è che si apra un tavolo di crisi con una forte presenza del welfare per capire quali sono i posti liberi in comunità, chi di questi giovani detenuti può andarci. Fare un lavoro su misura ragazzo per ragazzo, altrimenti quello fatto fino ad ora negli istituti da cui provengono sarà reso vano. Anche se la decisione è già presa dobbiamo sederci intorno a un tavolo e fare un passo in più, capire chi può accedere a percorsi alternativi. Facciamo in modo che questa emergenza non sia un’opportunità sprecata: le Comunità educanti possono diventare un fiore all’occhiello per l’Emilia-Romagna. I giovani tra i 18 e i 25 anni, anche se hanno commesso un reato, sono in una fascia d’età molto critica e sono quelli che possono trarre maggior beneficio da un mondo che si basa sulla generosità, su lavoro meraviglioso di centinaia di volontari».

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