Nell’era post-Green Trump rimette l’Arabia al centro: qui si discuteranno la pace in Ucraina e il futuro di Gaza

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Federico Rampini

Trump mette l’Arabia al centro per la soluzione della guerra in Ucraina e nella Striscia di Gaza

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Trump rimette l’Arabia al centro. La sceglie come sede delle trattative con la Russia. Deve coinvolgerla sul futuro di Gaza. Riad diventa un crocevia per la soluzione dei due conflitti aperti. Rinasce la relazione speciale inaugurata nel 2017: Trump inaugurò il suo primo mandato scegliendo di esordire all’estero con una tournée che iniziava nel Regno saudita.

Sull’Ucraina il ruolo del principe Mohammed bin Salman (MbS) non è solo quello logistico-diplomatico del padrone di casa che ospita il summit fra superpotenze. La scelta è caduta su di lui per ragioni importanti. L’Arabia ha ottime relazioni con la Russia, a cui la lega l’Opec+, il cartello dei Paesi produttori di petrolio. MbS non ha aderito alle sanzioni contro Putin. Questo colloca Riad nel Grande Sud globale che sul conflitto ucraino non si è schierato. Di quel Grande Sud il Regno saudita condivide sensibilità geopolitiche, e ne rappresenta la punta ricca.




















































Il vertice di Riad assume un’altra dimensione tipicamente trumpiana: un triangolo delle superpotenze fossili. America, Russia e Arabia hanno una fetta considerevole della produzione mondiale di petrolio e gas. Siamo nell’era post-Green. Per Trump il Green New Deal era un errore geostrategico, regalando alla Cina un pericoloso potere di condizionamento per il dominio di Pechino nel solare, batterie e auto elettriche. 

Il ruolo dell’Arabia in Palestina? È ancora più essenziale ma più complicato da gestire per Trump. Nel 2017, quando lui fece quella scelta senza precedenti, andando alla «danza delle spade» della monarchia saudita prima ancora di visitare gli alleati storici della Nato, fu criticato. In realtà pose le basi per uno dei maggiori successi della sua diplomazia. Cominciò a tessere la tela degli Accordi di Abramo con cui nel 2020 diversi paesi islamici (Emirati, Bahrein, poi Marocco e Sudan) riconobbero lo Stato d’Israele. L’Arabia era il regista occulto, cominciava a rafforzare i legami economici finanziari e turistici con Israele: il traguardo doveva essere la normalizzazione diplomatica. L’affaire Khashoggi — il barbaro omicidio di un giornalista saudita d’opposizione — fu una grave macchia per la reputazione di MbS, presto perdonata peraltro dall’amministrazione Biden: troppo bisognosa della collaborazione saudita per governare il mercato energetico. Ora sia Trump sia MbS vogliono riprendere il percorso iniziato con gli accordi di Abramo. 

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Sarebbe il coronamento della metamorfosi saudita. Sotto la guida del 39enne MbS il Regno ha intrapreso una modernizzazione che include progressi per i diritti delle donne, una laicizzazione, il ridimensionamento del clero. Riad ha smesso di finanziare la predicazione jihadista dell’odio anti-occidentale nelle moschee e madrasse del mondo intero. 

L’atteggiamento verso Israele fa parte di questa trasformazione. Il nuovo corso saudita ha rinunciato al tradizionale vittimismo che lega i successi israeliani all’oppressione dei palestinesi, o scarica i ritardi del mondo arabo sul colonialismo occidentale. Per MbS la performance economica e tecnologica degli israeliani è una Silicon Valley mediorientale che lui sta emulando in casa propria. Inoltre lo lega a Israele il comune nemico: l’Iran ha tra le sue missioni distruggere lo Stato sionista e occupare la Mecca. 

Per MbS l’ostacolo alla ripresa del disgelo con Israele è la questione palestinese. Le ultime uscite di Trump non aiutano. La monarchia saudita non può macchiarsi, agli occhi della propria opinione pubblica, del tradimento dei palestinesi: consegnando Gaza ad altri, e legittimando un’espulsione in massa verso Egitto e Giordania. La leadership saudita non simpatizza con i palestinesi, che considera colpevoli di errori scellerati da molti decenni in qua, incluso l’abbraccio con l’Iran, Hamas, Hezbollah. 

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Riad guida un’alleanza di regimi moderati o conservatori del mondo sunnita, che considerano l’Iran il pericolo principale per la pace, non Israele. Però l’opinione pubblica araba non perdonerebbe la rinuncia a uno Stato palestinese. I capitali sauditi saranno indispensabili: per la ricostruzione di Gaza, e non solo quella. Il nodo non sembra prestarsi alle semplificazioni di Trump. I suoi consiglieri lo spingeranno a dare più ascolto alle ragioni dei sauditi.

18 febbraio 2025 ( modifica il 18 febbraio 2025 | 08:16)

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