PIL E LAVORO/ La crescita che passa da formazione, produttività e innovazione

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Studiando i dati dell’Osservatorio Excelsior (ministero del Lavoro e Unioncamere) vediamo che a gennaio le aziende hanno programmato quasi 500.000 assunzioni, ma la metà sono andate deserte nei colloqui. E tra i profili che hanno avuto meno risposte non ci sono solo quelli di altissima professionalità, ma anche più semplici, quali fonditori, saldatori, manutentori. Per cui assistiamo al fenomeno di una crescita forte della domanda di lavoro che resta in gran parte inevasa, mentre l’offerta langue.



In buona sostanza siamo indietro e non riusciamo a rispondere alla domanda per problemi relativi sia ai profili professionali, sia alla mancanza di strumenti di politiche del lavoro che rendano meno difficile l’incontro tra domanda e offerta, anche intervenendo sulla formazione dei lavoratori, già dai percorsi scolastici molto obsoleti rispetto al mondo che cambia vorticosamente.

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Bisogna intervenire subito ripensando i programmi e, ovviamente, offrendo agli insegnanti corsi di aggiornamento e di vera propria formazione in tandem con le imprese, le scuole professionali rivitalizzate e con le università con percorsi di quel sistema duale che non abbiamo ancora saputo sviluppare per recuperare popolazione giovane e anche la forza lavoro di mezza età che possa produrre reddito e che agganci quel sistema a ripartizione che sorregga il welfare per radicarsi, per far crescere la produttività e dunque un sistema economico che possa uscire dalla stagnazione com’è ora.



La produzione del nostro sistema industriale è diminuita, il blocco di Transizione 5.0 fa richiedere al sistema sostegni al Governo, ma le scelte sono cambiate, il Paese è fermo e dobbiamo evitare la recessione. Purtroppo sono mesi e mesi di caduta e la lettura deve essere strutturale e non congiunturale: è un mutamento dell’industria italiana e deve essere contemporaneo il mutamento delle politiche del mercato del lavoro e nel momento di incertezza che viviamo dobbiamo avere una visione.

Per esempio, l’Italia è fornitrice della Germania nella componentistica e tanto ancora, allora dovremmo avere la forza e l’ingegno di pensare a una visione anche comunitaria e non pensare che l’Italia è resiliente perché la media impresa e le reti di impresa sono forti nell’export. Se non abbiamo le professionalità a chi esportiamo? L’innovazione necessaria oggi è fondamentale e quindi lì dobbiamo investire perché abbiamo anche una crisi reputazionale cui rimediare, grandi mutazioni sono avvenute nelle altre nazioni e la competizione internazionale si è irrobustita nell’innovazione tecnologica come l’AI, che coinvolge la manifatturiera e se non si riesce a innovare non si è competitivi.

Lo spiraglio di luce sta nel prendere in considerazione non solo i fattori esogeni, ma soprattutto noi dobbiamo pensare che i dazi annunciati da Trump non favoriscono, per esempio, un clima di investimenti e dunque la nostra manifattura che era nel triangolo Italia-Francia-Germania e aveva praticamente un ruolo di fornitore ora è ferma. Le imprese italiane sono in grado di fornire, per esempio, molto agli Stati Uniti che ora crescono proprio su manifattura, finanza, software e la capacità produttiva italiana deve tenere conto della possibilità di diversificare l’offerta di prodotti. Le strutture tecnologiche devono essere in grado di essere disponibili per le imprese a costi avvicinabili e le aziende devono poter contare su una politica industriale.

La legge sul Made in Italy è troppo modesta e non guarda alla dimensione internazionale europea e dobbiamo mettere a fattor comune le finanze in Europa e saperle spendere correttamente cominciando dalla formazione. L’elemento di innovazione passa attraverso una costruzione di politica economica sia italiana che europea, noi dobbiamo saper generare e applicare l’intelligenza artificiale soprattutto nella manifattura.

Il capitalismo italiano dal punto di vista sistemico non è attrezzato e gli imprenditori italiani in campo bancario rappresentano il risparmio che è il vero valore aggiunto nel Paese. Tutte le aziende tecnologiche sono in mano a monopoli americani e cinesi, ma il nostro estro, le nostre eccellenti menti possono sfidare tecnologie anche e soprattutto in capo alla ricerca e non c’è tempo da perdere: prima ne siamo consapevoli, prima ripartiamo.

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