Pensione anticipata, chi ci guadagna con le nuove norme? Pasticci (e rimedi) della riforma: l’analisi

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di
Alberto Brambilla

La riforma migliora la possibilità di pensionamento per quelli che in 67 anni di vita hanno versato pochi contributi e quindi anche poche tasse rimanendo così, per sempre, a carico della collettività

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La novità previdenziale introdotta dalla legge di Bilancio approvata a fine dicembre, consente il pensionamento anticipato, o di vecchiaia, cumulando la rendita pubblica erogata dall’Inps con quella dei fondi pensione per poter raggiungere i limiti soglia previsti. Tuttavia, il provvedimento lascia irrisolti i molti problemi della previdenza obbligatoria e complementare e crea ulteriori complicazioni.

Cosa cambia per la pensione

Vediamo anzitutto la legge che all’articolo 1, commi da 181 a 185, prevede che dal 1° gennaio 2025, solo i soggetti totalmente contributivi (cioè quelli che hanno iniziato a lavorare e versato il primo contributo sociale dall’1/1/1996) possono andare in pensione di vecchiaia o anticipata con il sistema contributivo integrale se cumulando l’importo della prima rata di pensione di base (quella erogata dall’Inps) con l’importo «di una o più prestazioni di rendita pensionistica complementare» raggiungono il parametro soglia mensile pari a 3 volte il valore dell’assegno sociale ordinario (534,41 euro per il 2024 e 538,69 per il 2025, pari a 1.603,23 euro al mese per 13 mensilità), ridotto a 2,8 volte per le donne con un figlio e a 2,6 volte per quelle con due o più figli. 




















































I nuovi requisiti: chi andrà in pensione a 70 anni

La pensione di vecchiaia si otterrà con 67 anni di età e almeno 20 di contributi se l’importo della pensione sarà pari a 1 volta l’assegno sociale (534,41 euro) e se non lo si raggiunge bisognerà aspettare i 70 anni di età.
A decorrere dal 2030 per la pensione anticipata occorreranno però 30 anni di contributi e un importo soglia pari a 3,2 volte il valore dell’assegno sociale ordinario.

Il confronto con la riforma Fornero

L’originaria riforma Fornero, prevedeva per la pensione anticipata 20 anni di contribuzione e una pensione pari a 2,8 volte l’importo dell’assegno sociale, mentre per la pensione di vecchiaia, giustamente, prevedeva una pensione a calcolo pari a 1,5 volte l’assegno sociale.
Con questa manovra si è peggiorata la situazione di quelli che comunque i contributi li hanno versati (passando da 2,8 volte a 3 e poi 3,2 e da 20 a 25 e poi 30 anni di contributi) e migliorata invece la possibilità di pensionamento (da 1,5 volte a 1 volta, lasciando i 20 anni di contribuzione) per quelli che in 67 anni di vita hanno versato pochi contributi e quindi anche poche tasse rimanendo così, per sempre, a carico della collettività. E non sono pochi visto che rappresentano oltre il 40% dei 16,3 milioni di pensionati. 

Le soglie da raggiungere

Con questa novità se con i contributi versati all’Inps non si raggiunge l’importo di 1.603,23, e il lavoratore è iscritto alla previdenza complementare, potrà utilizzare la rendita del fondo pensione per raggiungere l’importo soglia
Ad esempio, se la pensione Inps è pari a 1.400 euro, occorre che la rendita raggiunga i 203 euro mese per 13 mensilità per poter accedere lasciare il posto di lavoro. In tal caso il comma 183 prevede, in continuità con i provvedimenti targati Lega tipo Quota 100, e in modo anacronistico rispetto sia alla normativa previgente in Italia sia nei confronti degli altri Paesi Ue, la «messa in panchina» di questi lavoratori che hanno il divieto di cumulare redditi da pensione con quelli da lavoro fino al compimento dell’età di vecchiaia.

Le quattro complessità

Ma ci sono altri problemi. Eccoli:
a) consentendo un anticipo dell’andata in pensione utilizzando la rendita da fondo pensione, si snatura il fine della previdenza complementare che non è quello di lasciare il lavoro prima del tempo, ma di migliorare il tasso di sostituzione complessivo;
b) il comma 182 rinvia a un decreto ministero del Lavoro e Mef, l’individuazione dei criteri per il calcolo della rendita complementare e per la certificazione delle proiezioni fatte dal fondo pensione per avere una rappresentazione affidabile dell’importo della futura rendita in modo che si mantenga l’importo soglia. Il punto è che oggi le rendite da previdenza complementare, essendo una scommessa rischiosa e sconveniente economicamente, non le vuole nessuno tant’è che anche il 96% delle polizze assicurative viene riscattato in capitale. Sarebbe stato meglio riformare prima le rendite dei fondi pensione;
c) il decreto citato dovrà tener conto delle decisioni Eurostat in merito alla conferma del trattamento contabile delle prestazioni di rendita delle forme di previdenza complementare;
d) se poi le richieste fossero tante (ma la Ragioneria generale dello Stato ne prevede meno di 100 nel 2025), il comma 184 prevede una riduzione delle prestazioni o un aumento degli importi soglia.

In quanti potranno approfittare dell’uscita anticipata dal lavoro?

Ma chi potrà accedere a questa uscita? Per avere una pensione pubblica contributiva di circa 21 mila euro, considerando il coefficiente di trasformazione all’età di 64 anni pari a 5,088 e il tetto massimo di contributi e prestazioni fissato nel 1996 in 132 milioni di vecchie lire (68.172 euro), e oggi pari a 119.650 euro (una media di 94mila euro), occorre una contribuzione media annua per 25 anni pari a 16.000 euro corrispondente ad un reddito di circa 50 mila medi nei 25 anni che fanno un montante contributivo pari a 410.000 euro. Gli italiani che dichiarano da 50 mila euro in su sono solo il 5,5% quindi saranno davvero pochi quelli che potranno accedere a questa anticipazione; oppure dovrebbero avere un mix tra obbligatoria e complementare superiore ai 450.000 euro, ma considerando i contributi medi ai fondi pensione e quelli che effettivamente versano (poco più di 7 milioni su 24), saranno ancora meno, tant’è che il costo massimo dell’anticipazione per il 2025 è stato valutato in soli 12 milioni di euro.

Cosa si sarebbe dovuto fare

Invece, considerando l’invecchiamento della popolazione si sarebbero dovuto:
1) equiparare i requisiti dei contributivi con quelli dei misti (concedendo anche ai contributivi l’integrazione al minimo);
2) bloccare l’indicizzazione dell’anzianità contributiva dei 42 anni e 10 mesi (1 anno in meno per le donne);
3) confermare quota 102 di Draghi.
Migliorare l’assetto dei fondi pensione con:
a) un nuovo semestre di silenzio assenso;
b) la riduzione del carico fiscale (era dell’1% oggi è al 20%) e portare la tassazione al momento del riscatto della posizione mentre i fondi pensione italiani sono gli unici in Europa tassati annualmente con il penalizzante credito di imposta;
c) riformare le rendite prevedendo la copertura del rischio di sopravvivenza oltre la media e riordinando la confusione introdotta da Rita (rendita integrativa temporanea anticipata);
d) ripristino del fondo di garanzia per le micro e piccole imprese cancellato nel 2007 dal ministro Damiano e che di fatto preclude l’iscrizione ai fondi pensione per oltre 7,2 milioni di lavoratori.
Purtroppo, ad oggi, nulla di tutto questo è stato fatto. Mentre con l’obbligo per le imprese con più di 50 dipendenti di versare il Tfr all’Inps se non è versato ai fondi pensione sono stati sottratti in 12 anni oltre 97 miliardi all’economia reale che arranca.

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24 febbraio 2025 ( modifica il 24 febbraio 2025 | 07:31)

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