Ucciso e fatto sparire a Rossano, Ciro Nigro parla in aula dell’omicidio di Andrea Sacchetti

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«Ero stanco della mia vecchia vita, di tutto quello che avevo combinato. Non ho deciso di collaborare per i miei figli, loro erano contrari, l’ho fatto solo per me stesso». Così Ciro Nigro, già camorrista di sangue del clan Abbruzzese di Cassano allo Ionio, ha motivato il suo pentimento maturato nel 2021 dopo un travaglio di sei anni. Le sue prime confessioni, infatti, risalgono al 2015, epoca in cui si trova detenuto al 41 bis con la scimmia di un ergastolo sulla spalla, ma dopo quel primo colloquio con i magistrati della Dda non si assocerà mai un secondo. «Non è dipeso da me» ha affermato oggi in aula il diretto interessato. «Preferirei non rispondere» ha aggiunto quando gli hanno chiesto di spiegarsi meglio.

Nigro, infatti, ha testimoniato nell’aula di Corte d’assise, a Cosenza, al processo che tenta di far luce sulla sparizione per lupara bianca di Andrea Sacchetti, datata 5 febbraio 2001. È un’inchiesta innescata proprio dalle sue dichiarazioni e che vede alla sbarra Rocco Azzaro, ritenuto uno dei due esecutori materiali – l’altro sarebbe il defunto Eduardo Pepe – di un delitto che vede Nicola Acri nel ruolo di ispiratore.

La morte di Sacchetti, per come ricostruito dalla Dda, sembra mutuata dal film “Quei bravi ragazzi”. L’allora ventinovenne rossanese era estraneo alla estraneo agli ambienti del crimine organizzato, ma a quanto pare coltivava il sogno di far parte di un clan. In quei giorni, l’amicizia con il boss Nicola Acri sembra offrigli una sponda; e invece proprio quel rapporto che lui riteneva esclusivo gli risulterà fatale.

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Sacchetti, infatti, si sarebbe ritrovato coinvolto, suo malgrado, nelle turbolenze interne che, in quel periodo storico, interessavano l’organizzazione. Che fosse anche consumatore, oltre che spacciatore di droga, ne aggrava solo la posizione agli occhi dei capi. Morale della favola: quel maledetto 5 febbraio, il suo “amico” ritiene arrivato il momento di farla finita con lui.

L’ipotesi è che Acri in persona gli abbia dato appuntamento nei pressi del casello ferroviario di Rossano, luogo dove in seguito verrà ritrovato il suo motorino. Il boss lo attira nella sua auto con la promessa di portarlo a ricevere il battesimo di ‘ndrangheta, in realtà lo attira in una trappola mortale. Lo accompagna in un agrumeto della Sibaritide, in un capannone che avrebbe dovuto essere il “tempio” della sua affiliazione e che, invece, si rivelerà la sua tomba.

Per ricostruire fatti e antefatti, gli investigatori si sono avvalsi del racconto dello stesso Acri, nel frattempo diventato anche lui collaboratore di giustizia (sarà sentito in aula il 7 aprile, alla ripresa del processo). Ciò che accade in seguito, invece, è proprio Nigro a rivelarlo. Quel giorno, sostiene, gli zingari lo avrebbero convocato a Timpone Rosso, ordinandogli poi di dirigersi verso il famigerato capannone. Giunto sul posto, nota Rocco Azzaro con una pompa impegnato a ripulire il marciapiedi dal sangue versato poco prima. Poco distante, infatti, c’è il cadavere di un uomo «all’interno di una carriola». È Andrea Sacchetti, anche se lui ancora non lo sa.

«Poco prima lo avevano sparato, anche se io non c’ero, quindi non posso dire chi sia stato a farlo. Comunque, ho gettato il corpo in una buca che era stata già scavata a una quarantina di metri da lì e poi lo abbiamo ricoperto di calce e terra». In seguito, gli verrà chiesto di sbarazzarsi degli effetti personali – i vestiti e il cellulare – che per l’occasione scaraventa nel fiume Crati. Non chiede spiegazioni ai presenti e, va da sé, nessuno lo informa sui termini di quell’omicidio. «È un favore che abbiamo fatto a Nicola», si sarebbero limitati a dire i presenti.

Che bisogno c’era di coinvolgerlo in quel crimine? L’avvocato Enzo Belvedere, uno dei difensori di Azzaro, gli tasta il polso così. La risposta, Nigro la delega al defunto Pepe. Fino a quel momento, si era occupato solo di furti, piccole estorsioni e spaccio di droga, ma il defunto boss, a suo dire, aveva espresso la volontà di «fargli fare le ossa» con la partecipazione a un crimine più impegnativo come l’omicidio.

«Nigro non è credibile» aveva affermato in precedenza Belvedere, un anticipo di arringa che lo aveva portato a battibeccare in videoconferenza con l’avvocato Annalisa Pisano: «A quali atti si riferisce per fare queste affermazioni?», ha replicato il difensore del pentito. Se ne riparlerà in discussione.

Allo stesso modo, anche il codifensore di Azzaro, Francesco Paolo Oranges, ha fatto ripercorrere a Nigro un po’ tutte le sue peripezie carcerarie, dagli anni Novanta a oggi, per dimostrare come la sua decisione di collaborare sia giunta solo dopo la condanna all’ergastolo per il delitto Cimino. Schermaglie in vista del redde rationem giudiziario, peraltro sempre più vicino. Dopo l’udienza di aprile, ne sono in programma due a maggio. Poi sarà già tempo di requisitoria. Al processo, i familiari di Sacchetti si sono costituiti parte civile per il tramite degli avvocati Maria Sammarro e Antonio Pucci.

Prima di Nigro, a prendere posto sul banco dei testimoni era stato Mario Savoia, 58 anni, intimo amico di Sacchetti con il quale condivideva anche la passione per i furti nelle abitazioni. È intervenuto anche lui in videocollegamento dal carcere in cui si trova detenuto proprio per reati di questo tipo. «Il giorno che è scomparso avevamo un appuntamento allo scalo di Rossano, sono andato ma lui non c’era». Ha affermato Savoia dopo aver riavvolto il nastro della memoria. «C’eravamo già visti nel pomeriggio e poi avremmo dovuto rivederci a un bar. Ho chiesto di lui, mi hanno detto che era andato a fare una ricarica telefonica. Abbiamo visto che il suo motorino era lì, abbiamo aspettato una mezzora ma lui non si faceva vivo. Lo abbiamo chiamato più volte, ma lui non rispondeva. E così siamo andati via».

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Lui e Sacchetti fumavano marijuana in modo assiduo, sostanza che, secondo Savoia, l’amico era solito acquistare da non meglio precisati «albanesi». Anche lui sostiene di aver avuto problemi con Acri, ma se la sarebbe cavata con un pestaggio che, comunque, lo determinò a cambiare aria per trasferirsi definitivamente a Bologna.



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