Gli ordini professionali provano a tirarsi fuori dall’onere di affidare contratti di lavori, forniture e servizi applicando il codice dei contratti.
Informa Valeria Uva nell’articolo “Dagli Ordini degli avvocati arriva il «no» al Codice appalti” pubblicato su NT+ del 17.2.2025, che la “fronda” è particolarmente intensa da parte di vari ordini del nord.
Gli enti che gestiscono i professionisti non hanno digerito bene la sentenza del Tar Tar Lazio, 16 aprile 2024, n. 7455, che ha respinto il ricorso della Federazione di medici e odontoiatri (Fnomceo) contro un parere Anac secondo il quale gli ordini debbono applicare il codice dei contratti, in quanto enti pubblici non economici.
Al di là delle complesse argomentazioni circa l’effettiva natura degli ordini, merita qualche considerazione la motivazione espressa dal presidente del Consiglio Nazionale Forense, Francesco Greco, alla base della rivendicazione dell’esclusione degli ordini dall’applicazione del d.lgs 36/2023. Ricorda Valeria Uva che Greco il 14 febbraio in audizione all Corte dei conti ha rilevato la “impossibilità oggettiva di applicare agli Ordini, per lo più assai modesti per dimensioni e numero di dipendenti discipline pensate per il comparto delle amministrazioni statali“.
Aggiunge, ricorda sempre la Uva, a queste considerazioni altri elementi il consigliere dell’Ordine degli avvocati di Milano, coordinatore della commissione diritto amministrativo, Alessando Dal Molin, secondo il quale applicare il codice per gli Ordini fa scattare oneri procedurali e costi economici “assai gravosi”, perché le procedure codicistiche “sono tagliate su misura per le amministrazioni pubbliche che fanno tante gare e hanno personale dedicato“. In più, la necessità di effettuare le gare sulle piattaforme digitali implica attività amministrative che gli Ordini, realtà amministrative di piccole dimensioni, non riescono a soddisfare.
Bene. Senza esprimere alcuna valutazione di merito sulla questione, è comunque interessante rilevare un caso particolare, nel quale ci si accorge quanto difficile sia gestire le attività di propria competenza da parte della PA.
Troppe volte le astrusità operative, le tempistiche, le risorse da dedicare, le contraddizioni, i contenziosi, sono addebitati alla “burocrazia”, come fossero gli enti della PA a voler complicare, allungare i tempi, rendere opaca la gestione, aumentare i costi.
Gli ordini sono strutture che si vantano, a giusta ragione, di essere agili e leggere, al servizio dei propri iscritti. Chiedono di non applicare il codice dei contratti, consapevoli che il peso complessivo sarebbe etero prodotto non, dunque, dalla propria organizzazione e volontà, bensì dal legislatore che, come affermano, ha pensato certamente la disciplina degli appalti per le “amministrazioni statali” e per gli enti che “hanno personale dedicato”.
Ma, nella condizione operativa degli ordini si ritrovano tantissime amministrazioni pubbliche di piccole dimensioni, con una quantità di dipendenti uguale se non inferiore a quella degli ordini, ma spesso una quantità di competenze da svolgere infinitamente maggiore: basti citare i comuni, dei quali circa 5.000 di piccole dimensioni, con strutture dedicate agli appalti lontanissime dalla forza operativa che gli stessi ordini riconoscono come opportuna per gestire gli appalti.
Il “peso” del codice dei contratti, ma non solo certamente di questo, per le pubbliche amministrazioni è enorme, proprio perché le procedure, le regole, gli adempimenti, i compiti da svolgere non sono mai oggetto di una valutazione preventiva di impatto tarata sulle capacità operative delle PA, ma anche sulla forza di cittadini ed imprese di tenere dietro alle regole.
Per questo c’è un’invasione letale di attività di intermediazione di ogni tipo nella relazione tra cittadini e imprese, da un lato, e PA, dall’altro: commercialisti, consulenti del lavoro, enti associativi, sindacati, patronati, Caf, singoli professionisti, agenzie autorizzate di ogni genere, cercano di fare il possibile per consentire ai cittadini di interloquire seguendo le regole complicatissime dell’operare con la PA.
Ma, le singole PA spesso sono vittime, esattamente come cittadini ed imprese, della bulimia normativa e procedurale.
Il codice dei contratti prova a risolvere il problema, dal lato delle amministrazioni appaltanti, con il sistema della qualificazione obbligatoria, che induce gli enti appunto non dotati delle strutture necessarie ad operare per il tramite di stazioni appaltanti qualificate o soggetti aggregatori o centrali uniche di committenza.
Ma, è un palliativo, per altro molto discutibile. Anche perchè la stragrande maggioranza degli affidamenti è sotto la soglia comunitaria, per la quale non è necessaria la qualificazione, sebbene comunque le procedure e le modalità da seguire siano tutt’altro che semplici, come dimostra l’infinita questione riguardante le modalità da rispettare per gli affidamenti diretti.
Meglio sarebbe stato agire semplificando realmente l’iter, creando un iter standard sequenziale preciso, prevedendo un’unica piattaforma procedurale nazionale, gestita da un organismo unico, così da scongiurare l’attivazione di migliaia e migliaia di piattaforme diverse l’una dall’altra, che anche ogni singolo ente-polvere deve utilizzare, dando vita a costi enormi, procedure incoerenti, oneri operativi diversi e schizofrenie di varia natura.
In fondo, le doglianze degli ordini sono anche le doglianze che moltissime amministrazioni esprimono, inascoltate, quando si vedono soverchiate e schiacciate da normative complessissime come quella del codice dei contratti.
Sarebbe, però, saggio e corretto ascoltare solo gli ordini, senza rivedere a fondo tutto il funzionamento del sistema per tutte le PA e tutti gli operatori economici?
Views: 10
Correlati
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link