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Il presidente della Regione e la classifica del ministero della Salute: «Percorso che dura da 15 anni. Dobbiamo lavorare sulle infezioni ospedaliere e l’antibiotico resistenza, problemi trascurati»
Presidente Luca Zaia, come è arrivato il 10 in pagella per la sanità?
«È un grande risultato, raggiunto grazie al gioco di squadra con i 64mila dipendenti del servizio pubblico. Un lavoro portato avanti nonostante il momento di grande difficoltà nel reperire i camici bianchi: nel 2024 Azienda Zero ha lanciato 112 concorsi, uno ogni tre giorni, ma su 814 posti a gara ne sono stati occupati solo 197. Eppure la produzione è aumentata dell’8%».
È al top anche la qualità dei Livelli essenziali di assistenza. Qual è il segreto?
«La grande maturazione del personale e scelte strategiche vincenti. Come i 70 milioni di euro l’anno investiti in nuove tecnologie, tra le migliori al mondo, l’aumento a 70 dei robot chirurgici che eseguono migliaia di interventi mini-invasivi in Urologia, Chirurgia generale, Oncologia, Ginecologia, la telemedicina e un approccio culturale diverso».
Cioè?
«Nel 2012 ho iniziato la battaglia per introdurre le Breast Unit, reparti specializzati nel trattamento del tumore al seno con un sistema multidisciplinare che accompagna la paziente dalla diagnosi in poi. Sono diventati operativi il primo gennaio 2014, ma ho dovuto fare i conti con la protesta dei chirurghi generali. Mi hanno sostenuto le pazienti. E poi il Veneto è stato il primo in Italia a introdurre la ricetta dematerializzata, che permette all’utente di trovare la prescrizione medica direttamente in farmacia. Un cambiamento epocale molto utile, soprattutto durante la pandemia da Covid-19».
Tornando all’area ospedaliera il Veneto è «solo» terzo, rispetto ai vertici raggiunti in prevenzione e assistenza territoriale. Perché?
«Siamo sempre sul podio, si può migliorare. In questo momento storico la sfida è la deospedalizzazione e l’integrazione ospedale-territorio, che consiste nel ridurre i tempi di ricovero del paziente, comunque monitorato attraverso i Day Hospital, i Day Surgery e l’assistanza sul territorio».
Le piace molto parlare di futuro e innovazione. Cosa bolle in pentola?
«Stiamo introducendo l’intelligenza artificiale ovunque. Per rendere più precisa la diagnostica, come accade già in Anatomia patologica, per agevolare la ricerca, per fare ordine nelle agende dei Cup eliminando prescrizioni doppie o anomale e quindi snellendo le liste d’attesa, per richiamare chi ha fissato una prestazione ai fini della conferma o della disdetta. L’AI elabora milioni di dati con una velocità paurosa, è il futuro che ci permette di lavorare meglio, ma attenzione: è l’uomo a renderla intelligente. Senza professionisti la sanità non funziona».
Il fascicolo sanitario elettronico però arranca.
«Stiamo lavorando per far dialogare i vari sistemi delle Usl, un domani il cittadino leggerà i propri parametri biologici sul telefonino. I progressi della tecnologia cambieranno il rapporto tra il sistema sanitario e il paziente».
E con le Case di Comunità come siamo messi? Dovrebbero esserne pronte 99 per la metà del 2026.
«Stiamo rispettando i tempi (61 sono già parzialmente attive, ndr), saranno ambulatori supertecnologici».
Non la preoccupa niente?
«Sì. Stiamo trascurando i problemi delle infezioni ospedaliere (11mila morti all’anno in Italia, ndr) e dell’antibiotico resistenza. Dobbiamo cominciare a costruire ospedali meno belli ma più funzionali. L’esperienza della pandemia ci ha insegnato che non sono luoghi di happening, ma strutture dedicate alla cura, non allo shopping con negozi e bar, che agevolano la diffusione di virus».
Il 6 marzo le Regioni incontreranno il ministro della Salute, Orazio Schillaci, per presentare la loro proposta sui medici di famiglia. Qual è?
«Credo che la maggioranza dei governatori condividerà l’idea che porto avanti da anni e prevede la dipendenza per i neoassunti e la decisione di restare in convenzione o far parte del personale delle Regioni per chi è già in servizio. Non è una guerra ai medici di base, figure insostituibili e che hanno tutto il diritto di scegliersi il numero di pazienti e di affiancare all’attività ordinaria la libera professione. La riforma consentirebbe di coprire anche le aree più disagiate, come la montagna».
Come? Oggi il Veneto conta 554 zone carenti.
«I dipendenti seguirebbero il programma della Regione e coprirebbero 38 ore settimanali, almeno 18 delle quali nelle Case di Comunità o nei Distretti. Sarebbe giusto che anche a loro, come agli ospedalieri, lo Stato concedesse la libera professione in intra o extramoenia (fuori o dentro le strutture pubbliche, ndr) e un contratto a parte. E magari la possibilità di garantire prestazioni in più, fuori dall’orario curriculare».
Presidente, è a fine mandato. Cosa ci lascia in eredità?
«Non è tempo di bilanci, ho ancora mesi di lavoro davanti. E comunque per la sanità 15 anni sono un’era geologica, non ha senso fare paragoni tra il prima e il dopo Zaia. Di un traguardo però sono orgoglioso: aver lasciato fuori la politica, privilegiando la meritocrazia».
Ma i direttori generali li nomina lei.
«Sì e ne rispondo per i risultati pratici. Non sono espressione di una spartizione partitocratica ma professionisti selezionati per la preparazione».
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