I rifugiati in Etiopia vessati dalle nuove politiche sui visti

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Un’inchiesta di The New Humanitarian rivela le ripercussioni dell’obbligo di rinnovo mensile del visto per i rifugiati urbani

I rifugiati che non vivono nei campi devono pagare 100 dollari al mese per rinnovare il visto, e 10 dollari al giorno di multa in caso di mancato pagamento. Pena l’arresto. Sono 70mila, tra cui anche 15mila sudanesi. La maggioranza non ha lo status di rifugiato né i permessi di soggiorno, ed è costretto a vivere in clandestinità

27 Febbraio 2025

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Articolo di Antonella Sinopoli (da Accra)

Tempo di lettura 5 minuti

Non solo lontano da casa, non solo sfuggiti alla guerra, non solo senza mezzi di sostentamento, ora i rifugiati sudanesi che hanno cercato scampo in Etiopia, uno dei paesi confinanti, devono affrontare l’assurda burocrazia dei visti.

Lo denuncia The New Humanitarian che sulla questione ha svolto un’inchiesta. Se fino a poco tempo fa coloro che richiedevano lo status di rifugiato e decidevano di non vivere in campi designati non sottostavano alle politiche dei visti, oggi le cose sono cambiate. E questo a partire dal mese di ottobre dello scorso anno.

Come evidenziato dai racconti di molti rifugiati, se ne vedono le conseguenze, con intere famiglie ulteriormente impoverite dalla richiesta del governo etiope. Quest’ultimo aveva offerto esenzioni dal visto a coloro che, come dicevamo, avevano deciso di vivere in aree urbane dove c’è meno insicurezza rispetto ai campi.

Si stima che i rifugiati sudanesi urbani siano circa 15mila, ma non hanno ottenuto lo status giuridico che garantirebbe loro un diverso trattamento. Ora, dunque, i rifugiati che non vivono nei campi devono pagare 100 dollari al mese per rinnovare il visto, e ulteriori 10 dollari al giorno di multa in caso di mancato pagamento. Pena l’arresto.

E, seppure esistono molte testimonianze in proposito, non si conosce il numero esatto delle persone arrestate per essere state trovate con visto scaduto. Ma quelle cifre la maggior parte di loro non può permettersele.

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Alcuni fanno affidamento sui familiari che vivono all’estero già in realtà gravati dall’aiuto che mandano ai propri cari che a causa del conflitto hanno dovuto abbandonare la casa ma anche il lavoro.

Una guerra e un esodo infiniti

E pensare che qualche tempo fa l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), Filippo Grandi, aveva elogiato l’Etiopia per la sua politica di porte aperte e ospitalità verso i rifugiati. In realtà erano passati appena cinque mesi dall’inizio del conflitto e forse gli stessi paesi dove stavano cominciando ad arrivare in massa i rifugiati pensavano e speravano che la situazione si sarebbe risolta presto.

E invece quella in Sudan è una guerra che va avanti da 22 mesi, quasi due anni, e ha generato la più grande crisi umanitaria al mondo. Secondo le Nazioni Unite, più di 12,3 milioni di persone sono state sradicate dalla violenza, di cui 3,5 milioni hanno attraversato i confini verso i paesi vicini, principalmente Ciad, Egitto e Sud Sudan.

I numeri della crisi

Per quanto riguarda l’Etiopia, dall’inizio della guerra sono arrivate nel paese circa 163mila persone provenienti dal Sudan – tra cui 85mila cittadini sudanesi, cosa che fa comprendere quanto il pericolo e gli attacchi violenti accomunino sia i cittadini sudanesi sia altri africani che vivevano nel paese prima della guerra.

Va ricordato che l’Etiopia è il terzo paese in Africa per numero di rifugiati accolti. Secondo l’UNHCR il paese ospita oltre 823mila rifugiati e richiedenti asilo provenienti principalmente dal Sud Sudan, dalla Somalia e dall’Eritrea. A questi negli ultimi mesi sono aggiunti quelli provenienti dal Sudan.

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La maggioranza vive in 24 campi profughi istituiti in cinque regioni. Oltre 70mila altri risiedono nella capitale Addis Abeba come rifugiati urbani. Compresi dunque i 15mila sudanesi.

Il 47% dei rifugiati sono donne e ragazze, mentre il 59% sono bambini. E poi ci sono i propri sfollati interni, frutto del conflitto nell’Etiopia settentrionale e crisi e tensioni in diverse parti del paese. Sono 4,2 milioni mentre solo 1,5 milioni sono quelli rimpatriati, che hanno potuto cioè fare ritorno a casa.

Politiche fallaci

Le politiche sui rifugiati stanno quindi mostrando le loro deficienze. I rifugiati sudanesi ospitati nei campi – riporta The New Humanitarian – hanno affrontato terribili condizioni umanitarie e di sicurezza, soprattutto nella regione di Amhara, dove le milizie locali li hanno sottoposti ad attacchi, rapimenti e stupri.

Questo ha portato alla chiusura di alcuni insediamenti. Fatto sta che per chi decide di star fuori dai campi le cose non sono più semplici.

I sudanesi che entrano in Etiopia devono registrarsi per evitare il rischio deportazione e quindi a questo punto sono destinati ai campi gestiti dalle Nazioni Unite e assegnati dalle autorità locali.

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Chi però vuole stare in città può richiedere un permesso al Servizio governativo per i rifugiati e i rimpatriati, ma può essere difficile ottenerlo perché i richiedenti devono avere uno sponsor locale o dimostrare la propria capacità di mantenersi.

Molti dei rifugiati sudanesi urbani quindi non hanno lo status di rifugiato né i permessi di soggiorno, anche questi difficili da ottenere. Ciò significa che sono tenuti a rinnovare costantemente il visto, anche se pochi possono permetterselo.

Quello che sta accadendo dunque è che molti di loro vivono nascosti cercando di restare invisibili alle autorità etiopi. Una vita infame che non merita chi ha dovuto scappare per salvarsi la vita.

E le cose potrebbero non migliorare a breve viste le relazioni tese degli ultimi tempi tra Sudan ed Etiopia.

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