Rivoluzione in arrivo? Trump e le regole sul greenwashing in Europa

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Recentemente, dopo l’elezione di Trump, il dibattito sulla rendicontazione ambientale ha assunto una dimensione internazionale.

Negli Stati Uniti, gli alleati di Donald Trump, dopo aver accolto favorevolmente lo stop al Green Deal di Biden, ora criticano aspramente le regole europee, sostenendo che le normative sull’impronta ambientale e la trasparenza possano penalizzare la competitività delle aziende statunitensi.

Secondo queste voci, la “fabbrica di regolamentazioni” di Bruxelles impone costi e oneri eccessivi, spingendo legislatori e dirigenti a considerare queste misure come una minaccia alla libertà di mercato. In questo clima di contrapposizione, mentre l’UE prosegue nel rafforzamento delle misure per garantire informazioni chiare e verificabili, in America si accende il dibattito su come tali regole possano influire sulla competitività globale e sul posizionamento dell’economia americana. Questa tensione si inserisce in un quadro più ampio, in cui la sostenibilità ambientale diventa al contempo un obiettivo etico e uno strumento di competizione politica ed economica.

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Negli ultimi anni dichiararsi “verdi” o “eco-sostenibili” è diventato un modo sempre più diffuso da parte della aziende, sia nel marketing che nella vendita dei prodotti. Spesso, una semplice etichetta che recita “amico dell’ambiente” induce i consumatori a credere che il prodotto offerto sia realmente ecologico, anche se l’informazione fornita è vaga e priva di dati concreti.

Per contrastare questo fenomeno, noto come greenwashing, l’Unione Europea ha introdotto nuove norme, tra cui il Regolamento UE 2024/1781 sull’Ecodesign dei prodotti e la direttiva 2024/825/UE (chiamata “Direttiva Greenwashing”), che modifica precedenti normative sulle pratiche commerciali sleali e sui diritti dei consumatori.

L’obiettivo principale della regolamentazione europea è quello di proteggere il “consumatore medio” ossia colui che, pur essendo informato, non possiede competenze tecniche specifiche, ma si affida a messaggi chiari e trasparenti.

Le norme imporrebbero agli operatori commerciali di evitare dichiarazioni ambientali fuorvianti: non è più accettabile utilizzare marchi di sostenibilità non verificati o basati su criteri generici, come “rispettoso per l’ambiente”, senza dimostrare concretamente le prestazioni ambientali del prodotto o dell’azienda. In pratica, le dichiarazioni ambientali devono essere supportate da prove oggettive, e solo dichiarazioni che hanno un reale valore aggiunto potranno essere usate per distinguere un prodotto sul mercato.

Le nuove regole vietano esplicitamente pratiche come l’utilizzo di marchi di sostenibilità non basati su un sistema di certificazione regolamentato, oppure la presentazione di asserzioni ambientali generiche senza prove a supporto. Un caso emblematico riguarda l’uso improprio di etichette che attribuiscono al prodotto caratteristiche non direttamente correlate (ad esempio, indicazioni come “senza glutine” per un’acqua in bottiglia) oppure informazioni fuorvianti riguardo alla “carbon footprint”.

Quest’ultima espressione, infatti, deve indicare un’effettiva riduzione o compensazione delle emissioni lungo tutta la catena del valore, e solo in tali casi si potrà parlare di “impatto neutro”.

Inoltre, per evitare una moltiplicazione incontrollata di schemi di etichettatura, le nuove norme impediscono l’istituzione di nuovi sistemi nazionali o regionali, a meno che non siano conformi agli standard europei. I sistemi già esistenti potranno continuare a operare, ma solo se riescono a dimostrare trasparenza, affidabilità e rigore scientifico nei metodi di verifica.

Ogni Stato membro dell’UE dovrà designare autorità competenti per monitorare l’applicazione di queste disposizioni. In Italia, ad esempio, spetta all’AGCOM il compito di vigilare contro le pratiche commerciali sleali e il greenwashing. Le autorità possono agire d’ufficio o in seguito a segnalazioni da parte dei consumatori, richiedendo agli operatori di fornire prove che attestino la veridicità delle loro affermazioni ambientali.

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Le sanzioni previste sono piuttosto severe: in caso di violazioni, infatti, le imprese potranno essere escluse temporaneamente (fino a 12 mesi) dalle procedure di appalto pubblico e dall’accesso a finanziamenti, gare e concessioni. Queste misure hanno l’obiettivo di incentivare le aziende ad adottare pratiche trasparenti e verificabili, garantendo così una concorrenza leale e proteggendo il potere d’acquisto dei cittadini.

Le disposizioni della direttiva non saranno immediatamente vincolanti per le aziende. Ogni Stato membro dovrà, infatti, recepire e pubblicare le misure necessarie entro il 27 marzo 2026, mentre l’applicazione vera e propria avrà inizio il 27 settembre 2026. Durante questo lungo periodo, il panorama delle etichette ambientali potrà essere ulteriormente definito e aggiornato, anche grazie alla pubblicazione di una lista di etichette già riconosciute come affidabili.

Il contrasto al greenwashing rappresenta uno degli strumenti chiave per sostenere la transizione verde in Europa. Grazie all’introduzione di divieti specifici per le dichiarazioni ambientali infondate, le nuove direttive mirano a creare un mercato in cui il consumatore possa fare scelte informate e consapevoli. Allo stesso tempo, le imprese saranno spinte a migliorare la trasparenza e la qualità delle informazioni fornite, contribuendo in modo autentico a una maggiore sostenibilità ambientale.

Le nuove disposizioni rappresentano un passo importante verso una maggiore trasparenza e affidabilità delle informazioni ambientali, ma il percorso europeo non è esente da critiche. Ogni Stato membro dovrà recepire le misure entro il 27 marzo 2026, con l’applicazione definitiva a partire dal 27 settembre dello stesso anno. Questo iter, seppur volto a garantire la massima accuratezza e partecipazione, solleva dubbi sulla rapidità dell’azione in un contesto in cui, dall’altra parte dell’Atlantico, i decreti presidenziali di Trump consentono decisioni immediate. Resta da vedere se i lunghi tempi di attuazione dell’UE possano penalizzare la competitività delle aziende europee in un mercato globale in rapido mutamento, contrapponendosi alla velocità decisionale americana che, pur essendo efficace, rischia di compromettere un dibattito più approfondito sul reale impatto delle politiche ambientali in Europa e nel mondo.



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