Quanto i produttori agroalimentari italiani sono preoccupati per le minacce di dazi americani sui prodotti europei

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Le minacce diverranno realtà? Il futuro dell’importazione negli Stati Uniti dei prodotti agroalimentari italiani è veramente a rischio? Sono le domande che poco più di un mese dopo l’elezione di Trump si ripropongono continuamente. Sicuramente il quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti usa la minaccia dei dazi per ottenere qualcosa: lo ha fatto con Messico e Canada, sospendendoli per un mese dopo aver avuto la promessa di maggiori controlli ai confini soprattutto per quanto riguarda l’ingresso clandestino del Fentanyl, droga potentissima, una vera piaga sociale negli Stati Uniti. All’avvicinarsi della scadenza dei trenta giorni – il 4 marzo – le dichiarazioni tornano a farsi preoccupanti, vedremo.

Cosa succederà con i numerosi prodotti che il mondo agroalimentare italiano importa è ancora presto per dirlo. Secondo i dati forniti dall’Italian Trade Commission nei primi sei mesi del 2024 il comparto alimentari e bevande ha avuto un valore di importazioni superiore ai quattro milioni di dollari, con un incremento rispetto allo stesso periodo dell’anno prima di quasi il venti per cento: l’Italia è il terzo Paese per importazioni di alimentari e bevande negli Stati Uniti, dietro a Messico e Canada.

Le eventuali regole protezionistiche comunque ci saranno per tutta l’Europa, anche se qualcuno pensa che il rapporto personale instaurato dalla nostra presidente del consiglio con Donald Trump sia un vantaggio. «Ci pensa Giorgia», ha detto senza ombra di dubbio Raffaele De Nigris, dell’omonima acetaia, incontrato a un appuntamento organizzato dall’Italian Trade Commission per promuovere i prodotti italiani a New York.

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Claudio Stefani, ceo di Acetaia Giusti

La realtà è un po’ diversa. «Non avvertiamo un senso di particolare allarme» sostiene Federico Tozzi, direttore della Italy-America Chamber of Commerce (Iacc), sempre a New York, organizzazione non profit con quattrocento associati, «ma non c’è un trattato commerciale diretto tra Italia e Stati Uniti. Bisogna rimettere la comunicazione nei parametri dei rapporti tra Europa e Stati Uniti; anche otto anni fa grandi annunci, ma pochi fratti reali».

Federico Tozzi, direttore della Italy-America Chamber of Commerce

«Diciamo che lavorando qui da venticinque anni, la realtà che viviamo in questo momento mi fa più paura dei dazi, che su molte categorie sono già presenti da tempo» dice Beatrice Ughi che con la sua azienda Gustiamo importa prodotti italiani di alta qualità, come le conserve di Corrado Assenza, i prodotti ittici Testa, la pasta Faella.

«La pasta subisce già dagli anni Novanta una quota antidumping e una “countervailing duty” (un tipo di dazio comminato dalla World Trade Organization, Wto, che tende a controbilanciare sovvenzioni, ndr). Se dovesse arrivare un altro dazio questo alla fine finirebbe per pescare dal portafoglio del consumatore finale, con evidenti conseguenze» racconta a Linkiesta Gastronomika Riccardo Felicetti, ceo dell’omonimo pastificio. «All’aumentare dei prezzi di cessione, la contrazione del mercato è molto probabile, forse ovvia. L’unica incognita è il volume della contrazione. La situazione, quindi, è preoccupante. Non possiamo far altro che aspettare le decisioni della Casa Bianca e continuare a lavorare per mantenere la nostra presenza sul secondo mercato più importante per la pasta italiana fuori dall’Italia».

Riccardo Felicetti, ceo di Pastificio Felicetti

È un processo un po’ complicato, come spiega Giuseppe Di Martino, ceo e presidente del pastificio di Gragnano fondato dal nonno e soprattutto presente sulla scena newyorkese con il ristorante La Devozione: «La percentuale da applicare viene calcolata da luglio a luglio, quando i nostri bilanci sono invece legati all’anno solare. Vengono presi i dati dei due pastifici che hanno il volume più importante e su quello viene stabilito un dazio uguale per tutti: c’è la possibilità di chiedere una review, ma si rischia di infilarsi in un meccanismo complicato il cui risultato non è garantito».

I vini frizzanti, Champagne e anche Prosecco, sono penalizzati da tempo: «Le tasse che paghiamo sono molto elevate da anni» dice a Gastronomika Enore Ceola, ceo di Mionetto Usa, «siamo stati la prima azienda italiana di Prosecco ad aprire una filiale Usa nell’aprile 1988, seguiamo lo sviluppo attuale con grande attenzione ed è veramente difficile capire cosa accadrà».

Altri prodotti che già conoscono la presenza dei dazi sono i trasformati da pomodoro, come i sughi e i pelati. «Cambiano a seconda della trasformazione» ci racconta Cristiano Villani, ceo di Pomì Usa. «Sui sughi sono del sei per cento, sulla polpa del dodici. Per ora abbiamo fatto previsioni sull’anno senza calcolare nuovi dazi. Tutto dipenderà da come andrà la trattativa sull’Ucraina».

«La Comunità europea deve essere compatta», sottolinea Federico Tozzi, direttore della Camera di Commercio Italia-America, «senz’altro ci sarà un’erosione del potere d’acquisto e questo aumenterà la forbice tra ricchi e poveri. Rendere il processo importazione-distribuzione-retail più efficiente può mitigare il danno al consumatore finale. Ci sono un sacco di margini che possono essere ritoccati». Anche il dollaro forte può attutire il peso dei dazi sul consumatore finale, ma la storia insegna che non è un calcolo che può reggere sul lungo periodo.

Naturalmente molti tra i prodotti che arrivano dall’Italia non sono di uso comune e quotidiano. Come l’aceto balsamico tradizionale. Claudio Stefani, ceo di Acetaia Giusti, ci ha detto: «Sono convinto che il lavoro che abbiamo fatto nel tempo sul brand e sul posizionamento ci abbia messo in una condizione di essere un prodotto aspirazionale, che va oltre il mero bisogno alimentare. A prescindere dai dazi, continueremo quindi su questa strada, convinti che i clienti che oggi ci acquistano lo fanno per una scelta di campo che prescinde dal prezzo e che è quella di portare in casa, o regalare, un prodotto di altissima qualità ed eleganza e con tutto il portato valoriale legato al lifestyle italiano. L’Europa può essere comunque un vantaggio nel momento in cui riuscirà a porsi come interlocutore autorevole e soprattutto unito».

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Per il Parmigiano Reggiano gli Stati Uniti sono il primo mercato estero, con un posizionamento ben preciso: «Il rischio è che vengano presi provvedimenti di tutela che influenzino il mercato, colpendo in maniera indiscriminata anche chi, come noi, copre circa il sette per cento del mercato dei formaggi duri a stelle e strisce, e viene venduto a un prezzo doppio di quello dei parmesan locali», parola di Nicola Bertinelli, presidente del Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano Dop. «Noi non siamo in reale concorrenza coi formaggi locali: si tratta di prodotti diversi che hanno posizionamento, standard di produzione, qualità e costi differenti. È pertanto assurdo prendere di mira un prodotto di nicchia come il Parmigiano Reggiano». Già nel 2019 il Parmigiano era stato colpito da un dazio del venticinque per cento che aveva comportato un incremento del prezzo al dettaglio da quaranta a quarantacinque dollari al chilo. Poi nel 2021 il dazio è sparito.

Nicola Bertinelli, presidente del Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano Dop

Ormesani è un’azienda veneziana che si occupa di servizi di spedizione e consulenza doganale da oltre quarant’anni. L’agroalimentare copre circa il venticinque per cento del giro d’affari. Martino Giuseppe Ormesani, uno dei due ceo, l’altro è il fratello Andrea, ha sottolineato: «Chi crede che l’Italia possa avere un trattamento di favore rispetto agli altri Paesi Ue non conosce le normative o le ignora: le misure daziali, se ci saranno, saranno le medesime per tutta l’Europa. Anche se chi si carica la spesa iniziale dipende dagli accordi tra produttore e importatore, sarà sempre il consumatore finale a pagare. D’altra parte è innegabile che, rendendo più snella la gestione del trasporto, sarebbe più semplice aggirare il peso dei dazi. Sicuramente pensare a dazi di rappresaglia è uno scenario da scongiurare, perché innescherebbe una spirale negativa nei rapporti commerciali che sarà poi difficile risolvere nel breve termine».

Martino Giuseppe Ormesani (sx) e Andrea Ormesani (dx), i due ceo di Ormesani Srl

Nonostante il rischio del surplus fiscale, Longino & Cardenal si appresta a rilanciarsi sul mercato nordamericano. Ma Franco Denari, ceo di Longino & Cardenal Usa, non si fa intimorire: «Viaggiamo in tutto il mondo alla ricerca della grande qualità soprattutto da piccoli produttori artigiani. Non penso proprio che i dazi ci penalizzeranno, la relazione con i nostri clienti che si affidano alla nostra esclusività è molto forte e la domanda sta crescendo. Abbiamo una tradizione consolidata, non sarà l’aumento dei prezzi a metterci in difficoltà. L’America resta sempre la migliore piattaforma commerciale e tecnologica dove sviluppare il proprio marchio: con coraggio, inviterei tutti a investire qui».





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