Automotive europeo verso il tracollo definitivo secondo il nuovo piano d’azione Ue

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Il neo presidente dell’Automotive Regions Alliance, l’assesore lombardo Guido Guidesi.

Guidesi: «siamo di fronte alla morte dell’industria automobilistica in Europa».

In vista dell’appuntamento del prossimo 5 marzo in cui la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, dovrebbe presentare le linee guida del nuovo piano d’azione europeo in fatto di automotive, le prime indiscrezioni che sono circolate hanno mandato alle stelle l’allarme tra i produttori e gli amministratori dei territori dove sono attive le fabbriche di autoveicoli e della relativa componentistica.

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Di fatto, dinanzi ai disastri scientificamente perpetrati dalla fallimentare ideologia ambientalista della Commissione europea Ursula Uno, con dentro menti del calibro dell’ex vicepresidente socialista Frans Timmermans, nella nuova Commissione europea Ursula Due invece di ammettere gli errori marchiani e tentare una soluzione in corner, si continua dritti verso il baratro che porta all’azzeramento di un comparto economico strategico (vale il 7% dell’intero Pil europeo), occupazionale e volano di innovazione e sviluppo, visto che il successore di Timmermans, un altro socialista, la spagnola vicepresidente esecutiva Teresa Ribera, non ha nessuna intenzione di cambiare rotta che porta l’Europa della mobilità a spiaggiare contro gli scogli.

Mentre le principali organizzazioni dei produttori come l’italiana Anfia parla in una nota di «assenza delle misure ritenute essenziali per il settore e degli interventi urgenti di cui da mesi si discute», mancando completamente il ridisegno complessivo del percorso della transizione alla decarbonizzazione della mobilità, il presidente dell’Ara, Automotive Regions Alliance e assessore allo sviluppo economico della Lombardia, Guido Guidesi, afferma senza giri di parole che «siamo di fronte alla morte dell’industria automobilistica in Europa. Se saranno confermate le voci che arrivano da Bruxelles rispetto a ciò che la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, presenterà mercoledì 5 marzo per il settore automotive non si intravede nessuna inversione e se così fosse potremmo dichiarare definitivamente la morte del comparto».

Presidente Guidesi, il suo pare essere un commento di stampo definitivo sulle sorti dell’automotive europeo.

O si cambia o è la fine: non c’è più tempo disponibile: consumatori, mercato e l’attuale contingenza economica hanno già evidenziato come l’unica strada intrapresa dalla Commissione europea porti al “suicidio economico” più grande della storia industriale. Servono radicali cambiamenti e interventi su sanzioni costruttori, flessibilità e “neutralità tecnologica” come più volte proposto sia dall’intero “sistema Lombardo” sia dall’Ara.

La situazione che si è venuta a creare in Europa è drammatica, con il mercato automotive in pesante crisi, fabbriche che chiudono e avvio dei licenziamenti di massa, mentre sul mercato europeo si assiste alla più veloce crescita di penetrazione del prodotto auto cinese, che nel giro di soli 4 anni ha conquistato circa il 20% del mercato europeo.

Un questo momento la produttività del settore a livello europeo è ridotta a un quarto del suo potenziale, complice anche il mercato interno che registra contini cali di vendite, con il prodotto elettrico che non incontra il gradimento del pubblico e con i consumatori, nel dubbio di cosa succederà nei prossimi anni, preferiscono non cambiare l’auto, con il risultato che il parco circolante italiano invecchia sempre di più. Gli errori di percorso della prima Commissione europea a guida von der Leyen sono sotto gli occhi di tutti, con decisioni improntati solo alla logica ideologica ambientalista del tutto elettrico, sorvolando sull’impatto ambientale connesso con la produzione delle batterie e dell’energia necessaria per ricaricarle, specie in quei paesi dove la generazione elettrica è ancora fortemente legata alle fonti fossili, spesso quelle ambientalmente più impattanti come il carbone. Ecco, ora, dinanzi alla crisi conclamata, servirebbe una presa d’atto e mettere in campo le soluzioni per cambiare direzione e cercare di arginare il più possibile i danni arrecati ad uno dei principali settori economici europei.

Lei è presidente dell’Ara: nei mesi scorsi avete presentato alla Commissione europea richieste precise per uscire dall’attuale situazione.

La richiesta principale è quella di attenersi alla neutralità tecnologica, ovvero di fissare degli obiettivi da raggiungere che siano realistici e poi lasciare ai tecnici l’individuazione delle modalità con cui perseguirli. La soluzione esclusivamente elettrica non è affatto quella migliore per centrare il risultato della decarbonizzazione della mobilità di persone e di merci, che oltretutto sarebbe un’esclusiva della sola Unione europea. Crediamo su precise basi scientifiche e tecniche che anche altre soluzioni possano conseguire il medesimo obiettivo, passando per tecnologie proprietarie sviluppate in Europa, scansando quindi anche il rischio di dipendenza dal monopolio cinese, come quella dei biocarburanti dove l’Italia con Eni è all’avanguardia e che ha il vantaggio di mantenere invariata la tecnologica dei motori a combustione e che non richiede la creazione ex novo di una rete di ricarica elettrica, oltre a sostenere quell’economia circolare fatta di recupero di materie di scarto o di rifiuto e la loro trasformazione mediante bioraffinerie in carburanti con emissioni vicine allo zero.

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Ara non è contraria all’elettrico, ma alla sua imposizione assolutistica.

Sì, ci deve essere la possibilità di coabitazione di diverse soluzioni, dal veicolo completamente a batteria utile specie nella mobilità urbana dove gli aspetti di autonomia sono meno strategici, ai carburanti biologici italiani e quelli sintetici tedeschi, per finire all’idrogeno. L’errore della Commissione è stato di avere imposto un unico scenario, dove l’industria europea era arretrata di almeno 15 anni rispetto alla concorrenza cinese, con quest’ultima che ne ha subito approfittato per conquistare rapidamente importanti quote di mercato europeo ai danni dei produttori continentali.

Altro errore denunciato dall’Ara è quello di avere considerato per il solo settore automotive l’impatto solo sul fronte dell’utilizzo, mentre per altri settori vengono considerati tutti gli aspetti produttivi.

Sì, facendo finta a Bruxelles di non vedere come in Cina vengono prodotte automobili e batterie, facendo uso massiccio di carbone per alimentare le fabbriche, con emissioni inquinanti nette in crescita, mentre in Europa queste sono in continuo calo, con un impatto globale complessivo trascurabile dell’8% e con quelle relative alla mobilità ancora più ridotte, all’1%. Ecco, per ridurre fino ad azzerare questo uno per cento la Commissione europea sta distruggendo un intero settore industriale. Ne vale la pena?

Ovvio che no, visto che ci sono soluzioni alternative assai meno impattanti, salvo che a Bruxellesi si finge di non vederle. Salvo imporre costi immensi per tutti, sia per i produttori che per i consumatori.

Lo scenario che si va profilando è che la mobilità personale sarà sempre più appannaggio di chi ha alta capacità di spesa, mentre tutti gli altri dovranno rivolgersi al trasporto pubblico, andare in biciletta o a piedi. Uno scenario inquietante. Ma il problema di fondo, oltre ai costi della sostituzione radicale di tutto il parco circolante, è legato alla produzione dell’elettricità necessaria per soddisfare le esigenze della mobilità elettrica, che al momento e anche nei prossimi anni manca.

Ora le speranze di un’inversione di rotta sono tutte politiche, specie nel nuovo governo tedesco che ha già detto che è necessario cambiare in profondità lo scenario automotive fin qui delineato.

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I presupposti paiono esserci tutti. Si pensi che solo poche settimane fa, il Partito popolare europeo ha presentato un documento ufficiale che ricalca quasi integralmente la posizione dell’Ara e della stessa regione Lombardia, chiedendo modifiche profonde al piano del Green Deal automotive. Pure in Germania, sotto la spinta della crisi Volkswagen e degli altri maggiori gruppi automobilistici il nuovo governo Merz dovrà imprimere un sostanziale cambio di rotta al Paese e alla stessa Unione europea. Se non lo fa, lo scenario è semplicemente terrificante.

Dalla Germania all’Italia: a livello nazionale cosa si può fare per risollevare la produzione nazionale e, soprattutto, le vendite sempre più asfittiche? La stagione degli incentivi agli acquisti di automobili a basse emissioni non pare avere avuto successo.

La produzione nazionale dipende dalle norme europee e se queste non vengono cambiate sarà difficile avere quel salto di produzione da tutti atteso, a partire dalle migliaia di lavoratori in cassa integrazione da mesi nel gruppo Stellantis. Sul lato delle vendite, a fronte di prezzi di listino delle auto nuove sempre più care e sempre più fuori portata dei consumatori medi, le vendite sono sostanzialmente ferme. Gli incentivi all’acquisto centrati sui modelli a basse emissioni non hanno avuto successo, complice gli alti costi di acquisto.

Sarebbe più opportuno agire sull’auto aziendale, in Italia comparto sempre pesantemente penalizzato, assicurando la completa deducibilità del costo d’acquisto e di utilizzo, come avviene da sempre negli altri grandi paesi d’Europa, che porterebbe ad un aumento stabilizzato delle vendite di veicoli e alla loro sostituzione più rapida, di media 4 anni contro i 13 dei privati. Senza contare l’innesco del volando della migliore competitività per scaricare costi oggi non ammortizzabili in capo alle aziende.

Sfonda una porta aperta, anzi spalancata. Defiscalizzare l’auto aziendale potrebbe essere un volando per rilanciare strutturalmente il mercato italiano sempre più in difficoltà, garantendo anche un maggiore gettito fiscale derivante dall’incasso dell’Iva e dell’Ipt. Oltre a garantire l’esistenza dei concessionari, altro settore in forte difficoltà. Speriamo che il governo Meloni possa intervenire rapidamente anche su questo fronte.

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