di Maurizio Del Conte
Sono quattro i quesiti referendari in materia di lavoro:
1-sulla abrogazione del decreto legislativo n. 23/2015 in materia di sanzioni per i licenziamenti illegittimi;
2-sulla misura massima dell’indennità da licenziamento illegittimo nelle piccole imprese;
3-sulle causali per attivare il contratto di lavoro a termine;
4-sulla responsabilità solidale per i rischi specifici della attività degli appaltatori o subappaltatori.
1-Il quesito diretto alla abrogazione del D.lgs n. 23/2015 è l’unico che riguarda direttamente il c.d. Jobs Act, la vasta riforma del lavoro e degli ammortizzatori sociali, realizzata dal governo Renzi tra il 2014 e il 2015 con una legge delega e 8 decreti legislativi. Il successo del referendum produrrebbe il ritorno alla disciplina in materia di sanzioni per il licenziamento illegittimo prevista dalla L. 92/2012 (c.d. Legge Fornero) durante il governo Monti.
Quella disciplina, riscrivendo integralmente l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, aveva superato il principio della reintegrazione nel posto di lavoro come regola generale, distinguendo la sanzione sulla base dei motivi addotti dal datore di lavoro e accertati dal giudice. In particolare, essa limita la reintegrazione ai casi di licenziamento discriminatorio e disciplinare per fatto manifestamente insussistente, lasciando aperta la possibilità per il giudice di disporla in particolari casi di insussistenza dei motivi oggettivi addotti dal datore di lavoro. In tutti gli altri casi il licenziamento illegittimo è comunque efficace, ma il giudice fissa una sanzione economica in favore del lavoratore licenziato nella misura tra le 12 e le 24 mensilità.
Il Jobs Act aveva semplificato il meccanismo sanzionatorio previsto dalla legge Fornero, mantenendo la reintegrazione per i casi di licenziamento discriminatorio e per colpa manifestamente insussistente ma, per tutti gli altri casi, aveva previsto un automatismo che prevedeva una sanzione di due mensilità per ogni anno di anzianità di servizio, fino a un massimo di 24 mensilità. Ad esempio, per un lavoratore con anzianità di servizio di dieci anni, l’indennità veniva automaticamente determinata in 20 mensilità. Successivamente, il c.d. decreto dignità varato dal governo Conte I nel 2018, aveva portato il massimale della sanzione a 36 mesi per 18 anni di anzianità di servizio. Questo automatismo era però stato giudicato incostituzionale dalla sentenza della Consulta n. 194/2018 la quale, pur riconoscendo la legittimità dell’impianto della legge, ha ritenuto che non potesse essere sottratto al giudice il potere di determinare la misura della sanzione sulla base del suo libero apprezzamento di altre circostanze di fatto.
La Corte costituzionale è tornata più volte a pronunciarsi sul D.lgs 23/2015, manipolandone il testo e riducendone di molto le differenze da quello disegnato dalla legge Fornero. Qualora il referendum dovesse avere successo, si ritornerebbe a una disciplina, quella della legge Fornero, che è in larga parte sovrapponibile alla attuale, salvo per il massimale della sanzione economica. Con la conseguenza che la sanzione massima si ridurrebbe dalle attuali 36 mensilità a 24. La stessa Corte costituzionale, nell’ammettere il quesito referendario, ha segnalato la “circostanza che all’esito dell’approvazione del quesito abrogativo il risultato di un ampliamento delle garanzie per il lavoratore non si verificherebbe in realtà in tutte le ipotesi di invalidità” del licenziamento – perché per alcune di queste (e in particolare nel caso del licenziamento intimato al lavoratore assente per malattia o infortunio, oppure intimato per disabilità fisica o psichica a un lavoratore che non versava in realtà in tale condizione) si avrebbe, invece, “un arretramento di tutela”.
Insomma, tanto rumore per nulla.
2-Il quesito sulla misura massima dell’indennità da licenziamento illegittimo riguarda l’articolo 8 della legge numero 604 del 1966, laddove prevede un tetto massimo (pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto) per la liquidazione dell’indennità da licenziamento illegittimo. La Corte costituzionale ha puntualizzato che la norma oggetto del quesito referendario trova oggi applicazione, a seguito delle modifiche intervenute nella legislazione in materia, nei confronti dei soli lavoratori assunti alle dipendenze delle cosiddette “piccole imprese” (fino a 15 dipendenti) prima del 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del decreto legislativo numero 23 del 2015, attuativo della legge sul Jobs act. Va, in proposito, ricordato che a differenziare la sanzione per il licenziamento in ragione delle dimensioni occupazionali dell’impresa fu l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970.
Se passasse il referendum su questo punto, le piccole o piccolissime imprese – anche quelle con uno o due dipendenti – si vedrebbero esposte a una sanzione senza limiti, potenzialmente superiore a quella prevista per le grandi imprese. E, con un tessuto imprenditoriale costituito in larga misura da piccole imprese, non sarebbe una conseguenza da poco.
3-Il quesito referendario riguarda il contratto a termine. Attualmente, a seguito di una serie di riforme dell’istituto succedutesi nel tempo, i contratti di lavoro a tempo determinato (e anche la loro proroga o rinnovo) possono essere stipulati fino a un anno senza dover fornire alcuna giustificazione (c.d. acausali). Per periodi più lunghi è necessaria una causale prevista dalla legge, dai contratti collettivi o da una giustificazione oggettiva individuata dalle parti. Con il referendum si mira a estendere a tutti i contratti di lavoro a termine, a partire dal momento del loro inizio, l’obbligo della causale oggi sussistente per la stipulazione di contratti di lavoro di durata superiore all’anno. In particolare, per attivare un contratto a termine, di qualunque durata esso sia, sarebbe necessario individuare una causa giustificativa prevista dalla legge o dai contratti collettivi. E’ il caso di ricordare che la disciplina della causali nel contratto di lavoro a termine aveva portato alla esplosione del contenzioso giuslavoristico, stante l’incertezza e la difficoltà di determinare l’effettiva sussistenza della causale indicata (picchi di produzione, esigenze tecnico produttive etc.). Per questa ragione, il Decreto Legislativo 6 settembre 2001, n. 368, recependo la direttiva europea 1999/70/CE, aveva eliminato l’obbligo di indicare una causale per i contratti a tempo determinato di durata inferiore a 12 mesi. Lo stesso principio era stato ribadito dalla legge Fornero del 2012, che aveva riformato l’istituto. Se il referendum su questo punto dovesse avere successo, è prevedibile un crollo dei contratti a termine, con due possibili effetti: la contrazione dell’occupazione complessiva o la fuga verso altre tipologie contrattuali meno tutelate, quando non irregolari. Va in proposito ricordato che il contratto a termine gode di tutte le protezioni del contratto a tempo indeterminato e, nella fase attuale del mercato del lavoro, vede un alto tasso di conversione in tempo indeterminato, data la difficoltà delle imprese nel reperire le competenze di cui hanno bisogno.
4-Il quesito relativo alla abrogazione dell’articolo 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, numero 81 (c.d. Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro), si limita a colpire le parole “Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.” La normativa attuale già prevede la responsabilità solidale delle imprese committenti, appaltatrici o subappaltatrici, ma introduce una deroga per i rischi specifici. Si tratta di quei rischi legati alla particolare attività svolta dalla impresa appaltatrice che non sono, pertanto, nel controllo dalla impresa committente. E’ prevedibile che l’allargamento della responsabilità ai rischi specifici verrebbe coperto da una corrispondente estensione della copertura assicurativa delle imprese facenti parte della catena degli appalti. E’ di tutta evidenza come in materia di salute e sicurezza sul lavoro lo strumento referendario si riveli poco efficace, mentre sarebbe urgente una revisione radicale dell’intero sistema di controllo e prevenzione degli infortuni a partire dalla attività dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro fino al presidio capillare del territorio.

Docente di diritto del lavoro presso l’Università “Luigi Bocconi” di Milano. E’ stato consulente giuridico del Presidente del Consiglio dei Ministri per la stesura del Jobs Act e del primo disegno di legge sul lavoro autonomo e sul lavoro agile. E’ stato Presidente dell’ANPAL, l’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive per il Lavoro introdotta dal Decreto Legislativo 150/2015
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