Gajer è stato presidente della sezione Alto Adige per 3 mandati: «Bisognerebbe avere il coraggio di imporre una tariffa per i soccorsi inutili, ma qui ruota tutto attorno al “dio-turismo”»
«Dopo l’elezione del nuovo presidente, Alberto Covi, il capostazione di Bolzano mi ha mandato un messaggio: “bentornato in stazione”». Parole che sintetizzano bene il legame che Giorgio Gajer ha con il Soccorso alpino dell’Alto Adige, del quale è stato presidente per tre mandati (nove anni) fino alla scorsa settimana. E del quale continuerà a fare parte, «probabilmente con piccoli incarichi nel direttivo». Del resto, al Soccorso alpino lo unisce una sorta di «cordone ombelicale», considerato che sono nati nello stesso anno, il 1954. Settant’anni, di cui quaranta passati a lavorare per la Fiera di Bolzano, della quale è stato direttore tecnico, e trenta nel direttivo del Soccorso alpino.
Gajer, come si è avvicinato alla montagna?
«È stato nel periodo di leva militare, tra gli alpini della compagnia Mortai di San Candido. Ho frequentato i corsi di sci e di roccia al villaggio alpino di Corvara. Lorenzo Zampatti, presidente del Soccorso alpino prima di me, era il mio ufficiale. È nata una splendida amicizia, che abbiamo coltivato anche dopo. È stato la mia guida: mi ha fatto avvicinare all’alpinismo e all’arrampicata, faceva sembrare tutto facile. Quando, 30 anni fa, è diventato presidente del Soccorso alpino, mi ha chiesto di entrare nel direttivo con lui. Con la sua lungimiranza, l’associazione ha fatto passi da gigante. Nel 2016 ci ha lasciati: mi hanno chiesto di subentrare a lui, ho accettato pur sapendo che sarebbe stato un compito difficile».
Perché lasciare ora?
«Era arrivato il momento di lasciare spazio agli altri. Lo dicevo da tempo, ma non è facile trovare qualcuno disposto a ricoprire questo ruolo. L’impegno richiesto è moltissimo, devi essere sempre disponibile. E a questo proposito, ho un ringraziamento importante da fare».
A chi?
«Alla mia famiglia, che mi ha sempre supportato. E ai volontari e alle loro, di famiglie, che permettono di garantire il servizio 24 ore su 24, 365 giorni l’anno. Non c’è pranzo di Natale che tenga: quando arriva la chiamata, devi essere pronto a partire perché c’è qualcuno che ha bisogno di te. Non sai mai cosa troverai, né se tornerai a casa. Per fare il volontario servono grande voglia di altruismo, umiltà e passione».
Quali sono stati i cambiamenti ai quali ha assistito?
«Attrezzature, materiali e percorsi di formazione sono stati modernizzati. Trent’anni fa è partito il servizio di elisoccorso provinciale. Gli elicotteri sono entrati in maniera incisiva nel lavoro dei soccorritori, sono mezzi intelligenti e veloci per intervenire, ma con dei limiti. Col maltempo non decollano, e il fattore umano resta fondamentale. Poi c’è stata l’introduzione della centrale unica d’emergenza, il 112, che ha reso la macchina dei soccorsi più funzionale. E poi c’è la tecnologia: oggi, l’Imsi catcher consente alla Guardia di finanza di localizzare i cellulari dall’elicottero, e il Geo rescue del Cai fa sì che chi fa una chiamata d’emergenza, invii anche le coordinate esatte di dove si trova, così che noi arriviamo a colpo sicuro».
C’è qualche intervento che ricorda in modo particolare?
«Ce ne sono tanti di belli, ma anche quelli in cui ho perso dei colleghi. Tragedie non facili da superare, come quella in val di Vizze dove, nel 2016, quattro soccorritori della stazione di Renon morirono sotto la valanga durante un’escursione. Abbiamo un servizio di supporto psicologico, ma per ripartire serve una forza non indifferente».
La montagna di oggi è diversa da quella di 30 anni fa?
«Diciamo che l’avvicinamento in quota è diverso. Una volta era più selettivo. È giusto che possano accedervi tutti, ma sempre con l’attrezzatura e la preparazione adeguata. Serve rispetto, e la capacità di saper rinunciare e tornare indietro. Facciamo tante campagne di prevenzione nelle scuole, ma il rammarico è che, alla fine, sembra non servano a niente. Interveniamo per recuperare gente in quota in infradito, o che si avventura lungo una ferrata col cane. Dall’anno scorso, sono in aumento le richieste di intervento per cose minime. Una caviglia slogata, un impianto di risalita chiuso. Noi non siamo tassisti, ma soccorritori: bisognerebbe avere il coraggio di imporre una tariffa per i soccorsi inutili, ma qui ruota tutto attorno al “dio-turismo”».
Che realtà è l’Alto Adige, per un soccorritore?
«L’unica, in Italia, con due associazioni: Soccorso alpino e Bergrettung. Noi facciamo parte di una struttura nazionale che conta 7 mila volontari e 10 mila interventi l’anno (in Alto Adige sono, rispettivamente, 650 e 1.500), per il 75% concentrati nelle regioni alpine. I nostri volontari sono per il 70% di madrelingua tedesca, per il 20% ladina, e per il 10% italiana. Abbiamo quattro stazioni (su 22 totali) in cui siamo presenti insieme al Bergrettung e ci diamo una mano a vicenda a coprire i turni: Bolzano, Merano, Bressanone e Vipiteno. Tra di noi c’è un’ottima collaborazione: quando si tratta di andare a salvare una vita, non importa che si parli italiano o tedesco».
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