Giornalismo sociale, serve “dare voce a chi non l’ha”

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Definire cosa sia il giornalismo sociale è difficile e negli ultimi anni è mancata una riflessione. Lo contraddistinguono temi, funzioni e modalità. Nonostante la crisi del settore, però, serve ancora per portare luce su realtà e situazioni ai margini

C’è confusione intorno alla definizione di giornalismo sociale. Non esiste una definizione scientifica o una risposta unitaria in grado di spiegare la sua fisionomia e manca una vera letteratura in grado di sviscerarne l’essenza e la sostanza. Quando nasce? Secondo quali modalità? Per opera di chi? Con quali finalità? Sono soltanto alcuni degli interrogativi a cui, negli anni, si è cercato di dare una risposta ma che rimangono, ancora oggi, materia divisiva, di dibattito e contestazione.

In realtà, anche se in maniera residuale, qualcosa esiste. Più si va indietro nel tempo, sino alle origini nella controinformazione degli anni Sessanta o “all’età dell’oro” degli anni Novanta, più si trova documentazione sul giornalismo sociale. Al contrario, più si rivolge lo sguardo in avanti, meno se ne vede, tanto che non esiste nulla di specifico sul tema dopo il 2010. È un dato che fa riflettere. Perché, all’indomani del nuovo millennio, non vengono più pubblicate riflessioni e analisi sul giornalismo sociale? Perchè la mancanza di documentazione e la confusione teorica sulla sua definizione e sulle sue origini si legano a un problema strutturale più profondo: l’essere sempre stato considerato un tipo di editoria “sommersa”, accessoria, di cui difficilmente si è compreso il valore, e che, ancora oggi, si limita a resistere nel panorama dell’informazione contemporanea.

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Nonostante questo, c’è chi, nel tempo, ha cercato di studiarlo, ma emerge un disallineamento di fondo nelle idee e nelle definizioni formulate dagli esperti. Nel tentativo di rispondere alla domanda “Che cosa si intende per ‘giornalismo sociale’?”, essi hanno cercato di individuare quali fossero i criteri più adeguati, i perimetri più giusti, entro i quali inscrivere il concetto di giornalismo sociale e, così, darne una definizione capace di tenere conto di tutte quelle sfumature e di tutti quei frammenti che, di questa forma di giornalismo, si sono conficcati nel tempo e nello spazio.

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Un giornalismo attento ai margini

Redattore sociale aveva individuato undici categorie di temi: disabilità fisica e mentale, droghe e dipendenze, economia e politica, emarginazione ed esclusione, immigrati e minoranze, infanzia e adolescenza, religioni e sociale, salute, carcere, società, volontariato e terzo settore

Sulla base dei diversi ragionamenti formulati, è emerso un duplice approccio. Da un lato c’è chi ha tentato di definire il giornalismo sociale attraverso l’individuazione dei temi e delle aree semantiche che ne compongono la narrazione; dall’altro c’è, invece, chi lo ha fatto attraverso l’identificazione di criteri altri, diversi, come l’approccio utilizzato dal giornalista o le finalità e funzioni preposte a questo particolare tipo di giornalismo.

Molti esperti hanno puntato all’analisi degli argomenti. Tra tutte, la realtà che ne ha proposto la categorizzazione più compiuta è stata l’agenzia di stampa Redattore Sociale che, per prima, ha individuato 11 macrocategorie alle quali ricondurre tale ambito di trattazione: disabilità fisica e mentale, droghe e dipendenze, economia e politica, emarginazione ed esclusione, immigrati e minoranze, infanzia e adolescenza, religioni e sociale, salute, carcere, società, volontariato e terzo settore. Alcune macro-categorie, come la politica o l’economia, però, non aderiscono direttamente all’idea convenzionale di sociale, ma servono a delineare le tre diverse linee di tendenza che, ancora oggi, contraddistinguono tale narrazione giornalistica: il racconto dei temi che riguardano le parti deboli della popolazione, l’azione di coloro che si occupano di fronteggiare le diverse problematiche sociali e, infine, i temi apparentemente non sociali nel momento in cui vengono problematizzati. Questo perché lo scopo è quello di affrontare il disagio sociale in tutte le sue sfaccettature.

Tale visione permette quindi di intendere il giornalismo sociale come quella forma di giornalismo più attenta a povertà, marginalità, disuguaglianze, diritti umani, giustizia sociale e, però, non soltanto a questi ambiti. Perché il giornalismo sociale è anche parlare di altri temi, non direttamente riconducibili al sociale, e farlo, però, con un taglio diverso, capace di illuminare tematiche che altrimenti rimarrebbero escluse dal dibattito pubblico. Considerato in questi termini, però, potrebbe riguardare potenzialmente qualsiasi cosa. Diventa quindi necessario prendere in considerazione altri elementi perché i temi di cui si parla, il modo in cui lo si fa, il linguaggio, l’approccio e le finalità, sono aspetti tra loro connessi ed è proprio dalla loro lettura congiunta che si può giungere a definire cosa sia il giornalismo sociale.

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Un giornalismo che educa e mobilita

Tra le più funzioni più importanti del giornalismo sociale c’è l’advocacy, una funzione educativa che vuole costruire consapevolezza

Questo ha quindi portato gli esperti a ragionare anche attraverso criteri diversi, primo tra tutti quello delle funzioni e delle finalità. Tra le più importanti, quella di advocacy, una funzione educativa che vuole costruire consapevolezza rispetto alle fragilità, alle difficoltà, alle debolezze e, in generale, verso tutto ciò che in una società viene poco considerato. La ragione sociale di questo giornalismo è, infatti, quella di diffondere una cultura che sia in grado di dare spazio alla voce di chi, altrimenti, non avrebbe modo di farsi ascoltare e quindi di orientare le politiche pubbliche verso un miglioramento della società che tenga conto delle necessità di ciascuno.

Un’altra funzione, più specifica, è riabituare le persone all’esercizio della democrazia. In questo caso, il giornalismo sociale diventa uno strumento per costruire socialità, riattivare relazioni e, con esse, la capacità di azione e di empowerment individuale per quelli che, nella società, non hanno mai avuto voce. È quello che viene fatto, per esempio, dal cosiddetto “giornalismo alternativo”, quella parte di informazione giornalistica che non rientra nei canali dei media tradizionali, come il giornalismo di strada e gli street-paper. Ne è un esempio il mensile Scarp de’ tenis, fondato nel 1994 con l’intendo di dare voce, ma anche un lavoro, ai senzatetto. Ci sono poi il giornalismo del e dal carcere (come ad esempio…) o, ancora, i giornali etnici e multiculturali, che, nella maggior parte dei casi, promuovono pubblicazioni realizzate direttamente da alcuni gruppi sociali svantaggiati. Ancora, il giornalismo sociale è quel giornalismo che, oltre a occuparsi del sociale, mobilita il sociale permettendo un dialogo e un confronto tra tutte quelle realtà e quegli operatori che, in maniera differente, operano nel mondo dell’assistenzialismo e del terzo settore. E questo è quello che hanno fatto nel secolo scorso le agenzie di stampa sociale nate negli Ottanta, come Aspe (l’agenzia stampa “Disagio, pace e ambiente”, creata in seno al Gruppo Abele e chiusa nel 1997) e Misna (fondata dai missionari comboniani e chiusa nel 2015), o da riviste come il mensile Vita.

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I rider dell’informazione

Altre volte, però, il giornalismo sociale può anche essere definito attraverso l’approccio utilizzato dal giornalista o sulla base di alcune caratteristiche specifiche che ne determinano l’essenza, come l’imparzialità, o l’accuratezza documentaria o, ancora, il potenziale di denuncia o la continuità, il suo svolgere una funzione di “promemoria” nei confronti di cittadini e istituzioni continuando a parlare di un determinato fatto anche dopo la fine del clamore iniziale, non abbandonarlo senza averne seguito gli sviluppi, perché certi fenomeni continuano a esistere anche dopo le emergenze e le mode del momento. Dall’altro lato, però, si tratta anche di non partire da una notizia già esistente ma di crearla, mostrando come un evento ignorato possa, in realtà, diventare una notizia rilevante. E questo è ancor più importante nei confronti delle tematiche che riguardano il mondo sociale, sulle quali la luce dei riflettori viene accesa di rado e in genere resta accesa per poco tempo.

Alcune testate e alcuni media, quindi, associano questo giornalismo ad attività di campaining, con l’obiettivo non soltanto di informare, ma anche di stimolare riflessioni durature, consapevolezza e produrre un cambiamento tangibile. A volte, dopo la pubblicazione, segue una campagna di sensibilizzazione. Si tratta di una pratica che è stata usata di recente anche da Will Media, una media company che, sebbene non sia una testata giornalistica e realizzi molti contenuti sponsorizzati (branded content) per conto di grandi aziende, fa informazione sui social network o con prodotti audio-visivi. Will Media, dopo la produzione del documentario One day, one day sul caporalato, ha avviato una serie di incontri nei licei e una raccolta fondi per tenere aperta una scuola di italiano nel ghetto di Borgo Mezzanone.

Il fil rouge: essere voce di chi non ha voce

Il fulcro del giornalismo sociale rimane quello di parlare di questioni sociali, marginalità. Come scriveva il giornalista polacco Ryszard Kapuscinski, “andando sul posto, scendendo in strada, sporcandosi le mani, stando a fianco della gente, ascoltandola”

Dunque, quello che emerge da tutti questi esempi è una concezione mobile del giornalismo sociale che rimane, per sua natura, un concetto estremamente articolato e polisemico, cioè ricco di tanti e diversi significati, così come lo sono il suo oggetto d’indagine e i criteri lungo i quali struttura la propria azione. Nonostante questo, a intrecciare questa complessità esiste un fil rouge: l’idea di essere la voce di chi non ha mai avuto voce.

Il fulcro semantico del giornalismo sociale rimane quello di parlare di questioni sociali, delle marginalità, di tutte le forme vecchie e nuove di povertà e di crisi che emergono nelle società contemporanee, attraverso un dialogo in presa diretta – come scriveva il giornalista polacco Ryszard Kapuscinski – “andando sul posto, scendendo in strada, sporcandosi le mani, stando a fianco della gente, ascoltandola”.

Soltanto in questo modo si può parlare di un vero giornalismo sociale che sia capace di adempiere, ancora oggi, alle sue sostanziali funzioni di advocacy, sensibilizzazione e promozione della solidarietà, della giustizia e del bene comune, in grado di essere “parola agente”, scomoda ma legittima, in grado di stimolare la consapevolezza e la partecipazione dei cittadini, delle istituzioni e della società tutta. Perché il giornalismo sociale è quel giornalismo in grado di incidere sulla vita delle persone: è “un giornalismo intenzionale”, come diceva Kapuscinski.

La sfida della sostenibilità

Dunque, all’indomani del nuovo millennio, il giornalismo sociale si è evoluto, mutato, in seguito all’avvento dell’ecosistema mediatico di internet e dei social media. E con esso sono mutate anche le sue ragioni d’essere, le sue potenzialità, così come le sfide con cui è chiamato a confrontarsi, prima tra tutte quella economica. Con l’avvento della digitalizzazione, infatti, anche il giornalismo sociale si è ritrovato a vivere la crisi che, in generale, ha investito l’intero settore editoriale. I cambiamenti nel modello economico dei media, uniti a una crescente precarizzazione della professione giornalistica e a una mancanza di luoghi e di possibilità adeguate dove poter maturare competenze, hanno segnato con particolare evidenza un ambito già fortemente ghettizzato e residuale come è quello del giornalismo sociale. Questo ha portato inevitabilmente alla chiusura di molte realtà, compresa, da ultimo, quella del Redattore Sociale che ha pubblicato per l’ultima volta a gennaio di quest’anno.

Il giornalismo sociale, ancora molto necessario

Fare giornalismo sociale oggi è quindi una necessità strutturale che significa, prima di tutto, affrontare una sfida culturale prima ancora che sociale, politica o economica. Una sfida che, nonostante la crisi e la marginalità a cui è costretto, sia in grado di mostrare il valore e le potenzialità sottese a questo tipo di giornalismo, capace di mostrare la vicinanza entro cui il mondo interconnesso di oggi pone ogni persona e l’intersezionalità con cui struttura i temi sociali nello scenario globale contemporaneo.

Per questo, per concludere, oggi ha ancora senso parlare di giornalismo sociale e forse ne ha ancora di più rispetto che in passato perché è qualcosa che riguarda tutti e lo farà sempre di più e sempre più da vicino e più profondamente nel mondo interconnesso di oggi. Un mondo nuovo, nel quale la chiave di volta non è più soltanto dare voce a chi una voce non l’ha mai avuta, ma farlo con una nuova consapevolezza: che le voci dimenticate sono quelle che possono illuminare il futuro con più verità perché oggi, nell’era digitale, si è tutti irrimediabilmente interconnessi l’un l’altro e, così, la voce di nessuno non è nient’altro, alla fine, che l’eco della voce di tutti. E questo è il valore e il motivo per cui oggi servirebbe una rivalutazione del giornalismo sociale: per essere imparziali, ma mai indifferenti.


Per saperne di più

Monografie e libri 

  • CNCA (1996/2010). Guida per l’informazione sociale 1996, Capodarco di Fermo, RES.
  • Kapuscinski R. (2006). Autoritratto di un reporter, Milano, Feltrinelli.

  • Kapucinski R. (2000). Il cinico non è adatto a questo mestiere, Roma, Edizioni e/o.

  • Lalli P. (2002). Imparziali ma non indifferenti: il giornalismo di Redattore Sociale, Agenzia di stampa quotidiana, Faenza, Homeless Book.

  • Sarti M. (2007). Il giornalismo sociale, Roma, Le Bussole, Carocci Editore.

Saggi in rivista o in volume:

  • Boltanski L. (1994). La souffrance à distance, morale humanitaire, médias et politique Paris, in Revue française de science politique, vol. 44, n. 2, pp. 326-330.

  • Boltanski L. (2000). The Legitimacy of Humanitarian Actions and their Medi Representations: The Case of France, in Ethical Perspectives, vol, 7, n.1, pp. 3-16.

  • Cardini F. (1990). La notiziabilità del sociale, in Problemi dell’informazione, numero 3, Bologna, Il Mulino, pp. 26-32.

  • Fouhy E. M. (1996). Civic Journalism: Rebuilding the Foundations of Democracy, in Civic Partners, pp.132-147.

  • Levêque S. (2000). Les journalistes sociaux. Hostoire et sociologie d’une specialite journalistique, in ResPublica, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, vol. 45, n. 3, pp. 440-442.

  • Marini R. (2021). Ragionando di advocacy nel giornalismo. La difesa dei diritti alla prova dell’immigrazione e della società multiculturale, in Problemi dell’informazione, n. 2, pp. 187-212.

  • Sarti M. (2006). La voce di chi non ha voce. Le agenzie del giornalismo sociale in Italia, in Problemi dell’informazione, fascicolo 3, pp. 359-370.

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