La scuola cinque anni dopo il Covid

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Era il 5 marzo 2020 quando, a seguito dell’emergenza da Coronavirus, venivano sospese su tutto il territorio nazionale le attività didattiche delle scuole. Ci saremmo accorti a conti fatti che la scuola italiana, sbandierata in ogni dichiarazione pubblica come la priorità di tutti i partiti, sarebbe stata quella che avrebbe contato più giorni di chiusura in Europa.

A cinque anni dall’inizio della pandemia tocca fare un bilancio – non certo di ciò che è stato dal punto di vista emotivo che resta nella memoria di tutti – di quel che è rimasto ed è cambiato nel sistema di istruzione.

Le scuole chiuse e poi riaperte a singhiozzo per un periodo così lungo hanno mostrato fragilità strutturali, organizzative e educative che, come nodi al pettine, avrebbero potuto essere trattate contando su un coinvolgimento ampio, perché per una volta la scuola è stato argomento che ha riguardato tutti e non solo chi ne fa parte.

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Come sta la scuola, quindi. Ecco, già da un primo sguardo, vien da dire non bene: nelle scuole resistono ancora qua e là le fotocopie scolorite e spiegazzate appiccicate sulle porte che ricordano di igienizzarsi le mani o che limitano il numero di persone che possono stare in una stanza. Quelli che erano elementi di precauzione che suggerivano procedure e indicavano cura, oggi sono all’opposto segni di incuria e simboli dell’abbandono di cui soffre la scuola italiana.

Nessun riscatto e nessun riposizionamento sociale per chi fa la scuola, nessuna attenzione politica concreta per la gestione del precariato, per fare un esempio, e nessun investimento reale per eliminare – o quantomeno mitigare – le differenze tra Nord e Sud, tra licei e tecnici e professionali, tra scuole del centro città e della periferia.

Pensando al Covid, si comincia dalla questione informatica. Le scuole si sono trovate nel 2020 a dover gestire improvvisamente lezioni online e è emersa la differente disponibilità di strumenti e risorse, insieme alla diversissima preparazione del corpo docente circa l’uso degli strumenti digitali. Le soluzioni sono stati rattoppi emergenziali e la DaD, come fosse una ruota di scorta nel bagagliaio, io suo l’ha fatto. Il problema viene dopo, perché a distanza di cinque anni è rimasto l’acquisto di computer per qualche aula, qualche corso di avviamento all’uso di un software, più facilmente docenti capaci di usare alcuni determinati programmi che si sono messi a disposizione dei colleghi per corsi accelerati, gratuiti, per gestire l’emergenza o per adempiere a una richiesta. Non si può parlare di innovazione digitale né di cambiamento strutturale: il ruolo della tecnologia nell’educazione – lungi dall’essere un bene, per chi scrive! – resta marginale, e di tutte le possibilità previste, resta il parziale rinnovamento del parco di lavagne interattive e l’uso più o meno sistematico di uno strumento, generalmente Classroom, con allegata la cattiva abitudine di servirsene anche in orari non consoni e inopportuni da parte di studenti e docenti. Un po’ poco, se si pensa ai grandi discorsi sulla digitalizzazione, sulle nuove tecnologie, sull’intelligenza artificiale che sembra debba essere ciò di cui la scuola ha bisogno per risolversi e di cui deve parlare e su cui deve formarsi.

C’è poi il cuore della scuola che, durante il Covid, ci siamo accorti essere il quotidiano che garantisce la frequenza di un luogo essenziale per chi è in crescita. Oltre all’istruzione, la scuola è ancora e soprattutto un’istituzione fondamentale se è intesa come comunità. La didattica a distanza ha messo in luce quanto sia fondamentale la dimensione umana dell’educazione: la scuola non è solo trasmissione del sapere, ma un ambiente in cui professionisti e studenti coabitano e intessono relazioni fatte di condivisione, sguardi, ascolto, belli e brutti voti, esperienze, racconti. Vita. Ce ne siamo accorti trovandoci in assenza di tutto ciò e ora, a cinque anni di distanza, questa sembra una lezione smarrita: ci ricordiamo che una buona lezione è frutto anche (soprattutto) di una buona relazione? E che cosa si è fatto per coltivare questa relazione? I conflitti sono all’ordine del giorno e la scuola vive una guerra tra poveri senza quartiere: dirigenti, docenti, genitori, alunni tutti contro tutti per quisquilie organizzative, privilegi individuali, mezzi punti, debiti, suscettibilità. Non bastano un corso sull’inclusione o un’attività di team building, non è questione di empatia (per carità), al contrarioservono anche in questo caso investimenti ingenti per ridare dignità e forza ai docenti che hanno bisogno di tempo, credibilità e rispetto, salvo poi guadagnarsi sul campo con la professionalità tutto questo.

La storia è fatta da scelte storiche, non dal fatalismo, e allo stesso modo la scuola si cambia se ci si mette mano, non aspettando che accada qualcosa. E così ci eravamo detto che ne saremmo usciti migliori, invece siamo punto e a capo.





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