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Da appassionata di calcio ad arbitra internazionale. L’avventura umana e sportiva di Manuela Nicolosi è di grande ispirazione.

Partiamo dalla sua passione per il calcio.

«A casa nostra, erano tutti malati per il calcio. I miei cugini giocavano. Un giorno andai da mio padre e gli dissi che volevo diventare una calciatrice. Ma lui fu irremovibile. “Non è uno sport per femmine”. E pensare che ero anche brava. Ero piccola, non capivo che cosa fossero i pregiudizi, mi sembrava assurdo non poter praticare un’attività che amavo e mi veniva bene».

E allora ha puntato sulla carriera da arbitro.

«Erano i primi anni in cui si dava questa possibilità alle donne. Ho studiato per anni, sostenuto esami, mi sono allenata fino a raggiungere gli stessi risultati degli uomini. Ho mandato giù tanti no. Poi, nel 2010, sono diventata arbitro internazionale».

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L’anno che segna uno spartiacque, nella sua vita e nel mondo dell’arbitraggio al femminile è il 2019.

«È il 14 agosto, siamo a Istanbul. Liverpool e Chelsea si affrontano per conquistare la Supercoppa. Per la prima volta ad arbitrare la partita è una terna arbitrale femminile e io ne faccio parte. In seguito, ho arbitrato una finale della Coppa del Mondo Femminile e sono stata selezionata per due Olimpiadi e cinque tornei Fifa».

Da allora le donne arbitro hanno fatto dei passi avanti?

«Certo. In quella prima partita, noi donne abbiamo dimostrato di essere all’altezza del compito. Negli anni successivi, la presenza femminile è cresciuta, anche se i numeri sono ancora bassi. Lo stesso si può dire in tanti altri campi – dai consigli di amministrazione alle posizioni di vertice di imprese e istituzioni – dove le donne restano ancora in netta minoranza».

Come arbitra, le rimproveravano di essere troppo appariscente, con la sua coda bionda. Come ha reagito?

«Purtroppo, per qualcuno è ancora difficile pensare che una donna possa essere sia competente che bella. All’inizio, mi dicevano che in campo mi si notava troppo. Così, per un paio di stagioni, ho provato a rendermi più anonima. Non mi truccavo, non mettevo lo smalto. Nonostante questo basso profilo, mi arrivavano insulti, commenti fuori luogo, inviti a tornare in cucina. E così, visto che il problema non si risolveva, mi sono detta che tanto valeva essere me stessa. Ho smesso di nascondermi e mascolinizzarmi».

Come reagisce a chi la ostacola?

«Ai no, ho sempre risposto raddoppiando gli sforzi. Ai diktat, mi sono sempre ribellata. Il giorno in cui ho ricevuto il badge di assistente internazionale, mi è stata detta una frase terribile: “Ok, adesso niente figli per cinque anni”. Ma io avevo altri programmi e, poco tempo dopo, sono diventata madre».

Qual è la sua filosofia di vita che si sente di condividere?

«Amo sfidare le mie capacità. Cerco di uscire dalla mia zona di comfort il più spesso possibile. Se un’attività mi viene male, io mi impegno per migliorare. Se sei troppo comodo in quello che fai, allora c’è qualcosa che non va. Mi piace raccogliere sfide sempre nuove».

Ma lei è stata anche una manager di successo. Qual è la sua ricetta per farsi apprezzare in multinazionali di primo piano?

«Anche nel lavoro, bisogna sempre cercare di fare qualcosa in più. Essere orientati al risultato. Non limitarsi a fare il proprio lavoro, ma alzare lo sguardo, evidenziare problemi e trovare soluzioni. Quando mi succedeva di trovare aree migliorabili e avere in mente buone idee, andavo a bussare alle figure di vertice, senza farmi bloccare dal mio diretto superiore. Non bisogna mai aver paura di osare, si deve sempre puntare in alto. A volte noi stessi ci diamo dei limiti che non esistono».

Che cosa può insegnare un arbitro a un manager?

«La qualità fondamentale di un direttore di gare è quella di prendere decisioni in modo rapido, senza farsi influenzare dall’emotività e da tutto ciò che sta intorno. Non bisogna mai lasciare il timone alle emozioni, altrimenti si viene travolti e si perde la razionalità. Perciò ho seguito corsi di sviluppo personale, meditazione, respirazione, mindfulness».

E cosa fare quando il Var in campo o un collaboratore in azienda dimostrano che la decisione presa è sbagliata?

«L’atteggiamento giusto, in campo come in azienda, è ascoltare. L’arbitro guarda le immagini e, se si accorge di aver sbagliato, lo deve ammettere subito. Questo trasmette sicurezza. Se invece passa lunghi minuti nel riguardare le immagini, dà l’idea di una leadership fragile. Allo stesso modo, in azienda bisogna ascoltare tutti, avere il coraggio di ammettere i propri errori e, nel caso, anche cambiare idea. Il vero leader spiega le sue decisioni. E, di fronte a informazioni nuove, è pronto a cambiare punto di vista».

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Manager, arbitro, madre. Come lavorare sul work-life balance?

«Bisogna trattare il proprio tempo come un arbitro tratta il tempo di gioco. Io mi fisso obiettivi nell’arco temporale di sei mesi o di un anno: quello rappresenta il mio tempo di gioco. Poi decido le mie priorità. Quando ho avuto mia figlia, era lei la mia priorità. Quando è diventata più autonoma, la mia priorità era tornare a essere un arbitro internazionale. A quel punto, il nemico da battere era il senso di colpa. Il segreto è focalizzarsi, di volta in volta, su cose diverse, perché le energie non sono infinite. Ma, allo stesso tempo, tenere tutto sotto controllo».

Un suo modello è Pierluigi Collina, ex arbitro, uno dei migliori al mondo. Perché?

«Umanamente è disponibile, gentile e umile. Professionalmente è molto duro. Chi sbaglia, da lui non ottiene una seconda chance. Ma chi fa bene viene premiato».

Decido io. Dal sogno alla Supercoppa: il coraggio di rompere gli schemi (ROI Edizioni, pagg. 173, € 19,90) è disponibile nelle librerie e online).
Manuela Nicolosi è arbitro di calcio internazionale dal 2010. Ha fatto parte della prima terna di donne che hanno arbitrato una finale europea maschile. Due lauree, ha alle spalle una brillante carriera come manager in aziende importanti. Dal 2024 è talent arbitrale di DAZN e diffonde le sue conoscenze nelle scuole e nelle aziende.



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